Archivio | novembre, 2016

Piatto ricco mi ci ficco!

30 Nov

L’estrema provincia fa comodo all’evoluta ed emancipata città perché catalizza su di sé tutti gli stereotipi comportamentali che invece i cittadini proprio non possono (né devono) indossare, pur avendoli nell’armadio a far compagnia agli scheletri.
Cavalcando l’ignominioso provincialismo la città si lava la coscienza e trova un capro espiatorio quando invece dovrebbe specchiarsi per vedere se stessa in una declinazione solo meno numerosa.
Tante fenomenologie si rifanno ad un’unica matrice che cataloga, indirizza e divide le masse per mantenere se stessa.
Città; provincia; poco cambia e non fa eccezione il paese del nostro racconto, dove se volevi mettere i piedi sotto una tavola che non fosse quella di casa, la scelta cadeva su due ristoranti.
Il primo era quello storico, un po’ più grande, con qualche coperto in più e brandiva ancora lo scettro della categoria; il secondo, sorto in realtà poco dopo, lo insidiava da molto vicino e nel corso degli anni non erano mancati passaggi di consegne su chi dovesse rappresentare l’arte culinaria dei dintorni.
I frequentatori tenevano un approccio settario: chi mangiava nell’uno non metteva piede nell’altro.
Ognuno tesseva le lodi del proprio e soprattutto enfatizzava i difetti altrui.
Veri, presunti od inventati che fossero.
Detto da terzisti di comprovata fede, non si era mai mangiato benissimo nei due locali, perché se aspettate gli adepti quelli non ve lo diranno mai nemmeno sotto tortura a digiuno forzato.
Anzi, loro portavano avanti indefessi un’attività di propaganda in tutte le salse.
Compreso un Trip Advisor ante litteram.
La qualità, che nella sua interezza aveva fatto raramente visita nelle due cucine, stava ulteriormente scemando ma i commensali vedevano questa tendenza solo nel ristornate a loro inviso.
Ognuno criticava gli aficionados dell’altro, li derideva, li denigrava arrivando a partorire congetture e sillogismi da far impallidire la corrente conservatrice della Santa Inquisizione.
Agli astanti o a qualche anima ancora scevra dal fanatismo che si voleva addentrare nel ristorante nemico si paventava pessima cucina, locale sudicio, servizio squallido e pure il rischio di contrarre malattie infettive e veneree (nel dubbio meglio sempre esagerare).
Chiamiamolo manicheismo gastronomico.
Gli screzi non mancavano, i colpi bassi neppure.
Dove c’è fideismo c’è un cambio di casacca, tanto qualcuno o qualcosa da venerare lo si trova ovunque.
La scena si svolgeva così: il convertito – per scelta (quindi dietro pagamento) o per vocazione (quindi per tornaconto) – rinnegava ciò che lo aveva concupito fino al giorno prima e buttava anima e corpo nella nuova professione di fede.
Il nuovo arrivato era il vessillo da sventolare per vellicare il resto della truppa.
Anni fa nei due locali c’era una discreta scelta, perlomeno come numero di piatti, perché il sapore si rifaceva tutto ad un qualcosa di comune.
Ti sembrava di poter scegliere una pietanza sempre diversa, ma in fin dei conti mangiavi sempre la stessa roba o quasi.
Si stava meglio quando si stava peggio vale anche nel nostro paese di provincia ed ecco che la varietà delle due cucine – invero mai irreprensibile, lo avrete capito – registrò una frenata.
Come sempre i fedelissimi armati di forchetta stigmatizzavano le ristrettezze dei rivali, non di rado visitati con prezzolati clienti-spie.
Qualche temerario del libero pensiero, sottovoce anche con se stesso, rimpiangeva i tempi di dieci anni fa, tempo in cui rimpiangeva i dieci anni precedenti, ma proseguiva fieramente ad ingurgitare tutto quello che gli veniva propinato e i suoi pensieri così stupidamente corsari venivano immediatamente riassorbiti perché così si doveva fare.

Una spiegazione che avrebbe fatto ribellare anche Ken di Barbie, quindi nessuno di loro.
Improvviso come una nuova accisa sulla benzina, il menu del giorno coincideva col menu della settimana che proseguiva identico per tutto il mese.
Un mono-menu.
Già, perché il primo ristorante, in bella vista nella locandina, proponeva un piatto di merda.
Mentre il secondo ristorante rispondeva con un piatto di vomito.
chiosava inutilmente tronfio il cuoco della seconda trattoria.
facevano eco i titolari della prima trattoria con dosi di alterigia ben oltre i limiti del compatimento.
Ovunque si tentava la difesa tanto disperata quanto pacchiana del proprio menu con dei comizi vergognosamente ineffabili.
“Ragazzi il momento non è facile, ma non esiste niente di più sgradevole ed insopportabile del vomito, non oso im-maginare che sapore possa avere. È’ decisamente meglio un bel piatto di merda. Che è il risultato finale della dige-stione, ovvero un processo assolutamente naturale da cui noi ripartiamo.”
Specularmente nell’altro risto-horror qualcuno che aveva dimenticato il cervello da piccolo (e la dignità appena dopo) si barcamenava in tesi altrettanto ardite.

Lo straniamento del genere umano era diventato realtà perché nella folla di palati fini lo stupore durò lo spazio di un tentato ragionamento (praticamente è più lungo scriverlo), poi prevalse l’obbedienza che si confà ai servi.
Senza costrizioni, non occorrevano.
A vederli tutti adunati nella sala nessuno avrebbe detto cosa gli stessero servendo.
C’erano le tavolate delle grande occasioni (e la relativa smania di chi è ancora in fila), quel vociare in sottofondo, fastidioso ma gioiosamente rassicurante, il via vai di gente fra i tavoli.
Tutti indossavano la bramosia di chi sta per andare a mangiare da Bottura o comunque tenevano ben salda la convinzione di essere nel migliore dei ristoranti possibili.
Sembrava l’archetipo della perfetta serata gastronomica, era solo uno distorto ed angosciante simulacro.
L’odore delle pietanze era violentemente impregnato ovunque, nei mobili e nelle pareti, talmente forte che una persona normale l’avrebbe non solo sentito, ma anche visto.
Con le sembianze di uno spettro che raduna i disperati per il viaggio di sola andata.
Un tanfo così ripugnante si poteva trovare solo nelle favole sull’Inferno e sembrava il biglietto da visita della fine del Mondo.
Gli invitati per tutta risposta fremevano rutilanti sperando che la loro porzione fosse la più abbondante possibile.
Se avessimo bisogno di un’istantanea per descrivere l’assurdo, vedere dei cuochi e poi dei camerieri preparare e sballottare quelle schifezze sarebbe l’icona perfetta.
Appena le sostanze organiche venivano appoggiate sulla tavola i buontemponi impalavano rispettivamente merda e vomito al ritmo di una ruspa da cava.
Un brusio acciottolante, unito ai grugniti che produce una bestia affamata, tradivano la loro spontanea ingordigia.
Anziché bestemmiare, stramaledire l’Universo,menare qualcuno o sfasciare tutto, facevano la scarpetta in segno di gratitudine ed accondiscendenza, e nondimeno ordinavano solerti e quasi elettrici un altro piatto con ancora il contenuto in bocca.
Dalla voracità con la quale si introducevano quello che sappiamo, schizzavano nella faccia, nei capelli e sui vestiti (propri ed altrui) piccole manciate delle rivoltanti pietanze.
Un dettaglio che in altri contesti avrebbe procurato sicura onta, in quel girone dantesco nemmeno le più pignole dicevano bau.
E proprio vero che le persone si devono prendere per la gola, visto che anche i più inguaribili inappetenti si erano trasformati in convinti bulimici.
Solo i bambini, guidati dal loro salvifico istinto, si ribellavano come potevano, cioè piangendo e cacciando strazianti urla, coi genitori che non si capacitavano di una simile reazione ed arrivavano a redarguire, prima, e minacciare ed aggredire, dopo, i propri pargoli.
I bimbi ormai angosciati per l’apocalisse che avevano intorno e per la malvagia severità di mamma e papà ad un certo punto furono completamente ignorati dai genitori, che fra i propri figli e il menu scritto nella pietra avevano scelto quest’ultimo.
La merda ed il vomito come un uragano avevano invaso e sbriciolato quel poco di anima rimasta in ognuno dei convitati.
In maniera irreversibile, niente sarà più come prima.
In contemporanea dalle due rinomate trattorie si alzava lo stesso acuto commento “Tanto catastrofismo per nulla! Noi siamo fortunati a venire qui a mangiare…Fosse sempre così la crisi…”
Forse l’ideologia sazia lo stomaco, di certo (a)varia il gusto e guida le inermi masse, perché nei due ristornati non si facevano tanti coperti da quando l’economia tirava per davvero.
Il giorno che segue una baracca è sempre tempo di racconti epici, di momenti da immortalare e da rivivere, la gioia del ricordo si mischia alla malinconia e a qualche goliardica esagerazione.
“Alla fine ne ho mangiati sei di piatti…”
Nell’angolo più recondito della propria dignità si trovava il coraggio di schernire l’acerrimo nemico dai gusti culinari differenti aggiungendo all’inseparabile ortodossia un’inutile vanagloria “Guarda un mangiatore di merda! Il cesso è in fondo a destra!”
“Mi viene da vomitare! Così dopo puoi mettere qualcosa sotto i denti!”

L’aria del paese era satura di desolazione ma gli abitanti erano tutti eccitati per avere toccato il fondo.
Non ancora soddisfatti si misero a scavare.