Archivio | gennaio, 2017

Semplicemente Ayrton/Profeta in patria

14 Gen

Quattro anni del blog ed un solo articolo su di LUI, questo https://shiatsu77.me/2014/08/28/oltre-il-mito-oltre-la-leggenda/.
Non ho spiegazioni, né scuse, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Facciamo che siete dei piloti e che potete attingere a mani basse dall’immaginazione per dipingere la sceneggiatura di una vittoria su una pista a cui tenete particolarmente, magari la pista di casa vostra.
Non lesinate, avete carta bianca, oltre all’ovvio epilogo sono concessi qualsiasi tipo di prologo, trama, contesto, sorprese ed effetti speciali.
In questa attività onirica vi è permesso chiedere aiuto ad amici e parenti o scomodare registi e drammaturghi.
Mi spiace deludervi, ma qualsiasi cosa abbiate partorito non raggiungerà mai le vette di pathos toccate ad Interlagos il 24/03/1991.
Fino a quella data la sentenza Nemo propheta in patria non aveva risparmiato nemmeno Ayrton Senna, che in Brasile al massimo annoverava un secondo ed un terzo posto.
Questa volta più che il suo proverbiale perfezionismo e la sua bulimia di vittorie crediamo fosse l’amore viscerale per la propria terra a creare in Ayrton un senso di incompiutezza, lui che orgogliosamente si sentiva un portabandiera di quel Brasile, con tutti i sensi del dovere che una responsabilità di quella portata implica.
Il sospetto che sia un dettaglio funzionale a scriverci un romanzato articolo potrebbe nascere: Senna, dirà qualcuno, aveva vinto già due Mondiali e si apprestava a conquistare il terzo, era il pilota più forte, famoso, pagato ed amato del circus.
Sì, ma non dimenticate mai gli orizzonti mentali del campione di San Paolo.

Che Senna partì dalla pole mi sono accorto ora che potevo fare a meno di scriverlo.
Scattò in testa eppure in diverse riprese Mansell sembrava più veloce e pareva essere in grado di superarlo ma una foratura prima rallenterà il Leone inglese, poi la rottura del cambio lo costringerà al definitivo ritiro.
Non sarà solo il cambio della Williams a creare problemi, al 60° giro nella trasmissione della McLaren di Senna si ruppe la quarta.
E sarà solo il preambolo, Ayrton in breve perdette tutte le altre marce ad eccezione della sesta.
E le Formula Uno di allora non erano esattamente elastiche come i turbodiesel che guidiamo oggi.
Nei tornanti la sua monoposto sembrava fermarsi, se Senna avesse potuto scendere a dare una spinta la sua MP4 sarebbe andata sicuramente più forte.
Senna, il pilota che aveva riscritto il concetto di guida al limite, si trovava a contorcersi perché la sua vettura arrancava rischiando a più riprese di spegnersi.
Un pò la legge del contrappasso, un pò un obolo reclamato dal destino, un pò qualcos’altro di indefinibile che dà alla storia un aura affascinante, fatto sta che si percepì che nel suo abitacolo il pilota della Mc Laren stesse combattendo contro un demone intenzionato a sopraffarlo.
Il nostro aveva le sembianze di un equilibrista che si barcamenava a gestire una situazione kafkiana, esacerbata dalla tensione per essere ad un passo dalla vittoria e di vedersela sfuggire.
E mancare un’altra volta la vittoria nel GP di casa era una fattispecie che stava logorando Ayrton.
Lo stress si mischiava all’agonia fisica in una miscela deleteria, quella condizione non sarebbe stata sopportabile a lungo.
Ma c’erano da percorrere ancora una decina di giri.
Grazie alle sue acrobazie, al raggiungimento di una momentanea atarassia (forse) ed anche ai problemi meccanici che afflissero l’altra Williams di Patrese, Senna riuscì a completare in testa anche il 71°giro assicurandosi l’agognato primo gradino del podio.
A 31 anni era finalmente riuscito a trionfare nella propria terra: il macigno che Ayrton portava dentro doveva essere un fardello pesantissimo a giudicare dalle urla che si udirono dalla camercar appena tagliato il traguardo.
Lancinanti, paranormali, disumane, toccanti come pochi altri suoni.
No, decisamente quello non poteva essere solo un grido di esultanza, aveva tutte le sembianze di una liberazione e di un’espiazione.
Il Senna dei sorpassi impossibili, del ritmo frenetico, delle traiettorie impostate schernendo le leggi della fisica quel dì si travestì da un fedele guerriero che servì allo sfinimento la causa patriottica affidatagli: il talento lasciò il posto alla sofferenza, l’estetismo fu soverchiato dalla necessità, accettò ogni tipo di angheria e di tortura pur di giungere nella sua terra promessa.
Senna finì la corsa stravolto, aveva i muscoli del collo e delle spalle completamente contratti e fu estratto a fatica dall’abitacolo.
Ma la bandiera carioca era stata issata.

La vita di Senna è sempre piombata senza soluzione di continuità nelle sue gare lasciando evidenti tracce, dal granellino al pezzo grosso così.
Già detto della brasilianità, Interlagos ’91 racchiude un altro aspetto intimo del pilota, il rapporto col padre.
Con lui (ma con tutta la famiglia) un fortissimo legame simbiotico, costellato da sudditanza e rivincite.
Dal bel documentario del 2010 Senna si vedono le immagini dei festeggiamenti nei box della Mc Laren, Ayrton scorge la figura di suo padre ed esclama un “Papà!”, quasi una tenera richiesta di attenzione e coccole che ogni figlio maschio si aspetta di ricevere dal proprio genitore.
Come dire, me li puoi fare i complimenti, me li sono meritati oggi, guarda in che condizioni ho vinto.
Il signor Da Silva (Senna è il cognome materno) accorre al capezzale del figlio ma fa appena in tempo a sfiorarlo che questi gli intima di toccarlo delicatamente ed il meno possibile.
Ora è il figlio che dice al padre cosa deve fare.
Cosa e come.
Senna quel giorno di fine marzo allontanò l’incubo della gara di casa e si affrancò da una subordinazione nei confronti del papà, anche se gli eventi di qualche anno dopo dimostreranno che emanciparsi totalmente dalla sua famiglia gli risulterà impossibile.

Rimaneva da alzare la Coppa per dare alla giornata il suggello definitivo, senza quel gesto sarebbe stata quasi una vittoria di Pirro (per favore, nessuna battuta sul pilota romano).
Senna era allo spasmo ma richiamò all’ordine le pochissime energie ancora sparse per il suo corpo per alzarla al cielo, un rito doveroso per celebrare la sua vittoriosa battaglia combattuta al solito non solo coi rivali in pista.
Senna gongolava per essere stato spolpato nel fisico e nell’anima dal suo paese, dal suo popolo.
Per avere conseguito una vittoria nel dolore.
Una vittoria del dolore.
Una vittoria dal sapore indimenticabile.

 

 

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Tra il dire e il fare

7 Gen

In una città di oltre centomila anime due persone potrebbero non incontrarsi mai e rimanere perfette sconosciute.
Anche le loro idee potrebbero rimanere equidistanti.
Oppure no, potrebbero incrociarsi ed arrivare a sovrapporsi.
Per farlo avrebbero bisogno solo di un piccolo aiuto.
Ecco, magari l’astratto dovrebbe semplicemente avvicinarsi al concreto.

Tomas è un operaio, figlio di operai, e si definisce di destra.
Non che sia invischiato in faccende di partiti o manifestazioni, ma se lui andasse al potere (ognuno di noi è andato al potere almeno una volta nel proprio immaginario) saprebbe come dare una bella sistemata alla nazione.
Ci vuole più ordine in giro, cazzo.
Più rispetto delle regole, più pene per chi delinque.
E ognuno deve essere padrone di decidere a casa propria.
Questo pensa Tomas.
E tutti i torti forse non ce li ha.
Ma sarebbe troppo semplice se la questione si esaurisse lì.
Tomas è a conoscenza di qualche effetto collaterale del fascismo (qualcuno, perché oltre quel livello l’inibitore di onestà intellettuale che è in lui impedisce lo step successivo), ma almeno a quei tempi certi episodi non solo non capitavano, ma neanche se li immaginavano.
Così, per sintetizzare il Tomas-pensiero.
Ma Tomas non è un camerata didascalico intriso di fanatismo che va in pellegrinaggio a Predappio, assolutamente.
Gli piace divertirsi, conoscere gente nuova, fare le sue bisbocce, ama molto viaggiare Tomas ed è un tipo spontaneamente empatico.
Ma quando sente qualcuno che si confà a quei precetti lì sopra (e lui con l’occhio lungo scruta la situazione che invece c’è là fuori), beh, ne è attratto e senza conoscere i meccanismi dell’appartenenza intuisce che l’oratore ha toccato proprio le corde giuste.
E tutte in fila.
Sull’immigrazione Tomas è durissimo, pensa che sia la causa di tutti i problemi attuali anche se non ha mai provato veramente ad analizzare il fenomeno a fondo: perché esiste, chi la fomenta, che meccanismi vuole scatenare, che situazioni vuole scardinare, a chi giova.
Non gli serve, quando qualcuno dissente lui ha pronti i suoi personali casi di vita vissuta che corroborano la sua, di tesi.
Una prova provata di cui lui è il Pubblico Ministero, l’Avvocato ed il Giudice.

Pietro invece lavora in un’associazione di volontariato e tanto per formazione quanto per inclinazione si è sempre poggiato sulla tolleranza rigettando qualsiasi forma di xenofobia e discriminazione.
Si vivrebbe meglio se aprissimo le porte, i cuori e i portafogli ai più deboli e rispettassimo anche chi è diverso da noi.
Per sommi capi ecco un riassunto del suo credo.
Difficile contraddirlo.
Ma sarebbe troppo semplice se la questione si esaurisse lì.
Si è sempre immolato alla causa dei migranti perché ha identificato in loro la parte più vulnerabile e bistrattata della società.
Storia alla mano, dal colonialismo in poi, Pietro è convinto che la parte debole da tutelare siano loro.
Un anti-razzista militante, che ha analizzato e studiato il fenomeno a fondo.
Ma da un solo punto di vista che come una calamita gli ha condizionato la rotta.
Non sappiamo se Pietro, nella società globalizzata del Terzo millennio, abbia mai vagliato nuove ipotesi o esteso il suo pensiero.
Difficilmente ne avrà sentito il bisogno, lui crede di brandire convinzioni inoppugnabili.
E’ una persona brillante Pietro, di quelle che non sembrano avere nulla fuori posto.
Talmente corretto nelle risposte e nei comportamenti che a volte le sue stesse azioni paiono dover seguire un copione di buone maniere.
Fin da ragazzo ha avuto la strada spianata, lui il Mondo l’ha osservato sempre da una posizione propizia e vissuto con un atteggiamento irreprensibile.
Da quell’angolazione il suo logos si è compiaciuto, ha trovato conferme, si è auto-generato.
Mettere qualcosa in discussione in quel vellutato architrave è un’ipotesi da non contemplare anche per chi si dichiara un progressista (e tante altre cose).
O forse proprio perché si dichiara un progressista (e tante altre cose).
E a cambiare quel piedistallo quindi non ci ha mai pensato.
Lui no, ma siccome c’è chi può farlo per noi (e non avvisa e manco chiede un parere, figuriamoci un permesso) ecco che Pietro dopo il matrimonio – da cui ha recentemente avuto una bella bimba – si è dovuto trasferire in un altro quartiere.
Un pò la crisi economica, un pò la bolla immobiliare, un pò quel che volete voi ed ecco che quell’angolo di città si è trasformato in quelle che i telegiornali chiamano “zone difficili”.
Ma solo perché non possono (e neanche vogliono) definirle come “zone di merda”.
Perché tali sono: di tutto quello che può far precipitare la qualità della vita, lì statene certi che non manca (quasi) nulla.
Una sfavillante boutique del degrado perennemente aperta.
E che piaccia o no la differenza fra il prima ed il dopo si chiama immigrazione selvaggia.

Alla mensa dell’azienda di Tomas hanno assunto una ragazza marocchina.
Ci sono delle bellezze femminili volgari, altre ridondanti, eccessive, che urlano loro stesse finendo per imbruttirsi; la sua no, è di una finezza aulica che quando la incroci qualcosa viene sparigliato per il motivo opposto.
La tipa sa indossare la propria avvenenza, che potrebbe far osare di più, ma lei si affida al decoro e ad una semplicità che la rendono egualmente ineffabile, seppur lontana dai recenti canoni che hanno a paradigma veline&soubrette.
Non porta il burka, a differenza della madre che saltuariamente la viene ad accompagnare.
“Con tutti i disoccupati italiani che abbiamo c’era da prendere una marocchina.Avanti pure…”.
Ecco la prima, personale ed intima riflessione di Tomas su di lei.
Può darsi che pensi in particolare a sua cugina, a spasso da quattro lunghi anni nonostante la domanda l’abbia inoltrata anche lei, da un bel pò e non solo lì.
Ma la nuova arrivata inizia a conturbare Tomas.
Se ne sono accorti anche i suoi amici che subito lo sferzano tra conversioni all’Islam, pellegrinaggi a La Mecca e bambini di nome Mohamed ed Abdullah (ognuno ha il proprio modo di andare oltre).
Tomas, piccato quanto basta, se la prende in verità più con se stesso che con loro, perché il suo mansionario non prevede un’ipotesi così ignominiosa.
Tutti i giorni le scruta – quasi le analizza – il culo, e poi borbotta a bassa voce (ma cercando di farsi sentire) volgarità degne di un commilitone da film.
Tomas ha un solo obiettivo, scoparla, e parlando da solo ripete che la cosa deve finire lì, sia chiaro.
Sempre più concupito, dopo ogni apprezzamento fa partire regolarmente un insulto, acido come solo quelli gratuiti sanno essere.
“Andrebbe bene chiavata, la stronza!”
L’offesa serve a scaricare la colpa sulla ragazza.
La colpa di piacergli nonostante l’empio status di marocchina.
Capita quando una convinzione è talmente cementata nel cervello da respingere il ragionamento e i sentimenti.
Per attirare l’attenzione Tomas si traveste da moderato di ampie vedute, evita come uno slalomista certi argomenti spinosi (spinosi soprattutto per lui), il resto lo fa il suo bell’aspetto ed un savoir faire da vitellone (che succhia però dall’heritage di movimenti meno intransigenti rispetto a quelli portati a paradigma da Tomas).
Se qualcuno osservasse il susseguirsi dei suoi atteggiamenti potrebbe malignamente sferzare Tomas asserendo che la falsità e l’opportunismo non capeggiano solamente fra i venditori nei suk.
Tomas si atteggia da un personaggio di comodo che non c’è, ma quel gioco di ruoli, inizialmente mendace, inizia ad invischiarlo e a far diventare pruriginosi alcuni commenti (non certo illuminati) dei suoi compari.
Per la cronaca identici a quelli proferiti da Tomas fino a ieri l’altro.
Ma incontro dopo incontro il nostro deve recitare sempre meno perché sta bene con la ragazza, nessuno sobbalzerà dalla sedia sapendo che tra i due nasce una relazione.
Solo quando si riunisce al branco rimette in piedi il cerimoniale dell’uomo occidentale spietato che esce con la magrebina solo per castigarla: un pò per il gusto di zittire i petulanti amici un pò per far risalire le sue quotazioni nell’ambiente, ultimamente affievolite.
All’inizio è palesemente in imbarazzo solo quando incontra i suoi amici in compagnia di lei, combattuto fra la protezione (e l’attenzione) che un uomo deve riservare alla propria donna e l’iconografia duropurista da mantenere ed alimentare, ma non tarda molto a superare questi vetusti blocchi mentali.
L’amore può accecare ma anche aprire la mente più di un corso intensivo di filosofia alla Normale di Pisa.
Tomas per ovvie ragioni inizia a frequentare anche il fratello della tipa: personaggio edotto ma popolare, coinvolgente senza lambire la propaganda nonché abile oratore, astutamente gli fa annusare le affinità tra le due culture imperniate sul senso di appartenenza ed identità.
Ora l’animo di Tomas si è equiparato al suo comportamento, ma nella sua palingenesi non si è mica ritrovato boldriniano, o parleremmo di conversione e straniamento.
Semplicemente, alcuni dei suoi storici capisaldi adesso riesce serenamente a divulgarli alla morosa trovando peraltro diffuso consenso, ma quei pregiudizi avventati e quel partire dal risultato per poi costruirci sopra un pensiero (unico) li ha buttati nel cesso tirando anche l’acqua.
A quanto pare le qualità che esaltava come patrimonio dei nostrani fanno capolino anche ai nativi di altre latitudini.
Nel frattempo il Mondo non si è fermato per vedere la metamorfosi dell’ex intollerante Tomas e purtroppo non si è fermata nemmeno la malattia del padre.
Tomas non ha perso l’abitudine di trovare sempre un colpevole per tutto, solo che stavolta dargli torto è affar duro: il colpevole c’è e si chiama fabbrica.
Tra i parenti (non un infinità, ma nemmeno quattro gatti), tra gli ex colleghi (che sembravano così tanti) e tra la compagnia del bar (che si conferma una compagnia da bar) i più assidui assistenti al papà risultano i familiari della ragazza (marocchina).
Per Tomas è insieme una carezza – piacevole ed unica come solo quella che proviene dal tuo amore può essere – ed un sonoro cazzotto, un altro colpo da KO che rende parte delle sue preistoriche credenze più affossate che traballanti e lo costringe ulteriormente a quell’inutile, imprescindibile e devastante pratica dei rimorsi e dei “Se l’avessi capito prima”.
Attività oltremodo caustica, che permette finalmente a Tomas di leggere gli avvenimenti e non di subirli e che lo porta a modificare il tiro e a indirizzare il suo livore contro qualcosa che ancora non sa identificare, ma che lui intuisce essere il responsabile di questa guerra fra poveri, di cui l’immigrazione rappresenta l’artiglieria pesante.
Tomas vede ora l’immigrazione come il modo per rendere l’essere umano inerte e diluito e dannatamente manovrabile.
Oggi riguarda certe popolazioni, Tomas teme che a breve possa capitare alla sua.

Scippi, furti, risse, spaccio, sporcizia, aggressioni, stupri: l’inciviltà e la delinquenza hanno preso residenza nel quartiere assieme ai nuovi arrivati stranieri, e con esse la paura.
I nervi sono a fior di pelle: toccati da cotanta abiezione gli storici abitanti sono come bestie vessate nella loro tana che vorrebbero tanto mostrare i canini e la bava ma hanno ancora troppo da perdere.
E la situazione non fa che peggiorare.
Il focolare, la casa, il quartiere, non sono altro che proiezioni di ataviche esigenze del proprio io, che in queste abbiette condizioni viene minato.
Se c’è una cosa che manda in tilt è sentirsi impotenti nel proprio territorio, vederselo depredato, assistere al dissolvimento di quello che avevi prima sognato e poi (tutto od in parte) realizzato.
Pietro non si è mai sottratto a far la conoscenza di situazioni difficili, al contrario, ne è sempre stato attratto e ci ha condito la propria iconografia asserendo che tutti dovremmo vederle prima di giudicare.
Ma non ha mai sperato che sua figlia ci crescesse in mezzo.
Pietro non riesce a pronunciare ad alta voce (e nemmeno sussurrarlo alla coscienza) che un’immigrazione incontrollata procura sicuri disastri, per timore che quei pensieri sconfessino la dottrina a cui si è anchilosato.
Pietro ha paura di quella che ancora (per poco) giudica la suburra di ogni essere umano, lui che si sente ontologicamente differente da chi si accontenta di accusare il migrante solo perché differente.
All’evidenza cerca ancora di rispondere col ricettario dei buoni sentimenti.
Predica calma, vuole allontanare affrettati e facili giudizi viscerali che assomigliano a sentenze, in quella polveriera cerca di introdurre l’ingombrante parola comprensione, esorta a non abbandonarsi a biechi istinti e a non cadere nella facile trappola del razzismo.
Ma il primo destinatario della sua omelia è se stesso.
E come tanti, disattende quella predica.
Ricorda un alchimista a cui le formule, una ad una, si stanno pian piano ribellando.
Pietro dopo aver assistito a scene che mai lo avevano coinvolto direttamente (i racconti e le esperienze distaccate sono un altra cosa, diverso quando a testimoniare sono i tuoi occhi e a rimetterci tu ed i tuoi cari) inizia a fare conoscenza con una parte di se che non sapeva esistesse, o forse è quest’ultima che è voluta uscire stanca del soggiorno obbligato in mezzo a retorica, radicalismo chic, accoglienza tout court che hanno solo fortificato il sistema dominante.
Pietro è uno di quelli che aveva sempre tenuto i classici bei discorsi tondi e ragionevoli in cui l’antirazzismo oltranzista era pregno dello stesso peccato che voleva redimere.
E così il modello-Pietro, permeato con tutti i crismi dell’uguaglianza forzata e che pareva edificato con l’antisismica, inizia a sfogliarsi come un castello di sabbia asciugato dal sole.
Pietro impara che si può capire e condannare, essere comprensivi e duri, che la tolleranza contempla anche la fermezza e la critica, quando è proprio il contrario una sintomatologia del razzismo.
Pietro diventa portavoce della circoscrizione, deve andare in mezzo alla gente, a tutta, scopre che quella che una volta apostrofava come xenofobia oggi si può serenamente chiamare autodifesa, che la cattiveria è presente anche nel debole, nell’oppresso, nello sfruttato.
Essere deboli non esenta dall’essere stronzi.
Proprio approfittandosi dell’aurea di debolezza.
L’incedere degli eventi ha fatto da panno che ha tolto l’opacità dalle lenti con cui Pietro ha finora guardato la vita.
Pietro prende coscienza che se le leggi incentivano il crimine quel paese si trasforma in un ricettacolo di delinquenti e che ci sono persone che scelgono di andare proprio in quel paese per farsi beffa della (in)giustizia.
Ammette di essere stato manipolato, lui ed il suo atteggiamento, perché spesso il potere per raggiungere i suoi loschi obiettivi (che vanno sempre raggiunti) da abile parassita si serve dei buoni sentimenti, li sfrutta, li usa a mo di cavalli di Troia.
Pietro comprende altresì che per fare il bene (il bene di tutti, autoctoni ed immigrati) occorre anche il pugno duro e che in tutte le relazioni (o rapporti) i buoni devono essere in due, altrimenti meglio cambiare registro.

Se Tomas e la sua ragazza stiano ancora insieme non è dato a sapersi.
Il matrimonio, la abitudini quotidiane, la convivenza religiosa, l’educazione da dare ai figli: con due culture differenti possono essere ostacoli duri da superare.
Possono, ma non è detto che accada.
Non abbiamo notizie nemmeno dal quartiere di Pietro, e questo potrebbe essere anche un bene.
Forse.
No, Tomas e Pietro non si sono mai conosciuti.
Loro no, ma le loro idee si sono incrociate.
E quasi sovrapposte.

Racconto di pura fantasia, qualsiasi riferimento a fatti o persone è puramente casuale.

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