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La speranza fa(ceva) Novanta

17 Apr

I Settanta sono gli anni dell’appartenenza, della lotta, dell’agorà.
Conquiste epocali andavano di pari passo con la strategia della tensione e con prove tecniche di dittatura da terzo millennio.
Anni impegnati, ma anche truci e rabbiosi dove l’ideologia e le pallottole si rincorrevano in un tremendo meccanismo di causa-effetto.
Manicheismo, tanto.
Manipolazione, molta più del percepito.
Se non si comprende quel periodo è inutile sforzarsi di capire i nostri giorni.
Gli anni Ottanta sono stati invece decisamente più comodi e spensierati.
Divertenti.
Tanto.
Troppo.
Dalle piazze alle discoteche il passo fu breve: Milano da bere, yuppies e paninari, da noi.
Edonismo sfegatato, dappertutto.
Dopo gli anni di piombo la gente volle distensione.
Gliela diedero e in omaggio pure il superfluo che più superfluo non si può.
Un po’ oppio per il popolo e un po’ canto della sirena: l’egemonia culturale (di gramsciana memoria) del neo-liberismo a discapito del sociale nacque allora.
Gli Ottanta sono la palingenesi della plutocrazia, che oggi ha raggiunto dimensioni da crescita ormonale.
E gli anni Novanta?
Mica facile rispondere, perché quando pensi di aver azzeccato la definizione ti accorgi di esserti scordato qualcosa.
Perché i Novanta sono più indecifrabili, un condensato di tutto ed anche del suo contrario, essendo nati in maniera fallace: caduto un regime allergico alla libertà il mondo è stato liberamente obbligato a lasciare il comando ai sedicenti esportatori di democrazia col vizietto della guerra e di altre carinerie.
L’influenza del decennio precedente fu evidente, ma se con gli Ottanta il sistema per distrarre disse “Divertitevi ed esagerate pure”, coi Novanta volle dare una parvenza di contegno, pur seguendo il medesimo filone.
Forse era un modo per superare l’edonismo reaganiano sfrenato, forse era solo una sua emanazione edulcorata.
Peccato che tutto questo facesse a cazzotti con un focolare covato dentro pronto ad esplodere.
Ed esplose.
Esplose perché gli effetti e le reali intenzioni di quelle politiche iniziarono a venire a galla ,anche se in maniera confusa e a volte approssimativa: ad ogni modo si percepiva che trent’anni di conquiste sociali rischiavano di finire in nebbia.
Le persone cominciarono ad intuire di essere in un tritacarne che raramente si inceppa, così, con sofferto disincanto, per qualche istante albergò l’idea che bisognasse tornare indietro anziché andare avanti a testa bassa come si era fatto fino ad allora, perché quando si cammina a testa bassa qualcosa ci si dimentica, e il più delle volte è la dignità delle persone.
Ma dopo poco il pensiero svanì, con buona pace della dignità delle persone.
Proteste autentiche, risposte pronto uso di finto cambiamento, artefatte.
Se il periodo di tensione dei Settanta durò molto è (anche) perché faceva comodo all’autorità costituita: creare il disordine per giustificare una svolta (semi)autoritaria e reprimere il pensiero dissidente, più durava il caos più il piano funzionava.
Nei Novanta la voglia di cambiamento non era politicizzata da ideologie che andavano ormai scemando, era in un certo senso più genuina.
Quasi ingenua.
Ma durò pochissimo.
Pur intensa, la contestazione dei Novanta, rispetto ai famigerati anni Settanta, fu più sporadica e soprattutto meno partecipativa e convinta.
Ci si svegliò dalla sbornia del decennio precedente senza capire la vera causa del mal di testa, si pensava che la nausea derivasse dalla mancanza di legalità e giustizia – ed in parte era vero, visto che ce n’era senz’altro bisogno – ma i mali che iniziavano a devastarci si chiamavano capitalismo globalizzato e neo- liberismo, solo che faceva più comodo ricondurre tutto alla corruzione (che esisteva, eccome) e a protestare solo contro quella.
Lontana era la diagnosi, figuriamoci la terapia, protestammo, forse poco, probabilmente male, per assurdo rafforzammo chi avremmo dovuto demolire.
Abbiamo contestato col fumo negli occhi, arruolati in cause esse stesse abbindolate, divisi in categorie che avevano la stessa paternità.
Siamo stati virilmente anti, anti- questo, anti-quello, ma contro personaggi da operetta e peccato che la controparte fosse più o meno la stessa cosa, solo con una livrea differente, più o meno presentabile.
E poi non basta essere contro qualcosa o qualcuno per diventare alleati e perseguire lo stesso scopo, specie se il tuo presunto alleato è un bastardo.
In troppi si fidarono del cosmopolitismo (e ci si affidarono) e delle frontiere aperte – meri cavalli di Troia – e si fecero convincere dalla gabbia europeista, dalle prigione dei liberi mercati e delle privatizzazioni, insomma, da quella masnada di balle che fanno capo alle famose riforme che da quegli anni iniziarono ad incombere ed aleggiare.
Chi aveva invece intuito e vaticinato i pericoli di questa svolta erano i movimenti No global (quelli autentici, quelli nati col popolo di Seattle, non le tristi versioni sbiadite ed opportuniste) ma furono prima dipinti come violenti e facinorosi, trattati poi come vandali o teppisti e infine bollati come nemici della modernità, del benessere e della democrazia – l’epiteto nemico della democrazia in genere funziona sempre, un po’ come gli infiltrati nei cortei.
In troppi non capirono il loro messaggio, anche quelli considerati antagonisti di professione, che si smarrirono in battaglie facili, teleguidate, sterili o utili a chi avrebbe dovuto essere l’obiettivo della contestazione.
In quel decennio il potere finge di cambiare scegliendo la faccia più pulita e la casacca giusta perché si potrà permettere quello che vuole senza sforzi.
Oppure opta per il cambiamento smaccatamente gattopardesco e la gente è divisa in blocchi e fazioni che sono l’una il rovescio della medaglia dell’altro.
E così il capitalismo evoluto è libero di squarciare il culo a piacimento ed ha pure il tempo di prendere per bene la mira.
Il potere è (quasi) sempre stato avanti ai fenomeni storici ed ha intercettato e veicolato le proteste, ma è nei Novanta che per sgattaiolare e mantenere lo status quo, sceglie, quasi ufficialmente, la maschera adatta ad ogni occasione, anche quella del nemico.
In politica lo chiamano trasformismo, nella vita di tutti i giorni paraculismo.
Del potere, prima, abbiamo visto soprattutto la potenza, nei Novanta, e dai Novanta, anche il camaleontismo.
Con un’incazzatura mediamente alta ed una sana voglia di indignarsi che pareva indissolubile, resta il rimpianto di non averci provato abbastanza.
E di non aver rigettato il messaggio orwelliano di invertire la realtà delle cose.
Gli anni Novanta, ovvero speranza e delusione , sono implosi (o fatti implodere) nello stesso momento in cui sono nati.
Dove al bisogno di prosperità, serenità ed autonomia ha fatto seguito l’insediamento dell’Euro e delle sue regole opprimenti.
Dove la celeberrima libertà occidentale si è ridotta a cercare dei dittatori in giro per il Mondo senza accorgersi dei propri.
Dove ai protocolli sul clima si è affiancato un aumento sfrenato della produzione e dei consumi di merce per lo più inutile.
Dove il bisogno di scoprire oltre confine ha fatto diventare tutti apolidi.
Dove mani che si stringono blaterando di pace sono le stesse che hanno ordinano genocidi, massacri e invasioni.
Nei Novanta una iniziale ventata ha portato un polline che profumava di rivalsa e rinascita, illusione spazzata via dal tifone che farà respirare solo l’alienazione e la subalternità al profitto e alla sua macchina organizzativa.
Le ideologie che dapprima avevano unito e diviso sono state sostituite da slogan studiati a tavolino e da valori scialbi e liquidi, tanto da creare negli sfruttati i classici schiavi che invocano frusta e catene.
E’ dalla metà del nostro decennio che è andata in onda la seconda e decisiva fase del nuovo metodo di potere: cinismo, fanatico globalismo, spersonalizzazione, sradicamento, disprezzo nei confronti del sociale e del pubblico, alienazione al business, abiura delle origini.
Ci hanno finanziarizzato il pensiero, economicizzato l’anima e burocratizzato i gesti e le azioni.
La competitività è diventata un comandamento, peccato che solo testualmente faccia rima con dignità.
Dignità, ancora lei.

Ogni epoca si riflette con le rappresentazioni artistiche del proprio tempo (e viceversa), l’ultimo decennio del Novecento si era svegliato con l’ambizione dichiarata di tornare alla semplicità, alla purezza, ad un fiero minimalismo (ricercato o grezzo), di evitare inutili orpelli in nome della spontaneità, agli eccessi si preferiva la profondità, che fossero suoni, testi, trame, arrangiamenti, sceneggiature o regie.
Con le dovute eccezioni.
L’Idea che le ricette artistiche precedenti fossero da soppiantare invece era in comune coi decenni più attempati, come il vizio di gettare via l’acqua sporca ed anche il bambino.
Passato il tempo dello sballo e della provocazione tout court , icone del decennio cotonato, il talento si affidava alla rabbia, all’insofferenza, alla riflessione – presenti invero anche negli Ottanta, ma con meno sistematicità.
Il colpo di spugna inferto alla smaccata ridondanza degli Ottanta sapeva di manifesto per un nuovo corso, culturale e di costume.
E’ di questo intricato decennio l’ultimo genere musicale realmente nuovo, il grunge, nato letteralmente sottotraccia, figlio delle protesta e dell’insoddisfazione, cresciuto nel bisogno di urlare il male interiore per salvarsi la vita e di dare una rumorosa svolta a quella società, ritrovatosi famoso come i generi commerciali che disprezzava da piccolo.
Ha mandato in soffitta artisti e generi, di altri è stato (e continua ad essere) una musa ispiratrice, anche per degli autentici insospettabili.
Si pensava che l’asprezza del grunge come una carta vetrata potesse togliere il marcio che affiorava per far riemergere la linfa fresca.
Si pensava.
Impetuoso, travolgente, influente, effimero, autolesionista, la colonna sonora dei Novanta non può che essere lui, il grunge.
(Una vocina mi suggerisce che la storia non va divisa col righello, né catalogata in ferrei periodi di comodo per chi scrive, come se una qualsiasi epoca iniziasse o finisse esattamente in quel determinato anno, attribuire la paternità di un evento non è mai facile, anche le più iconiche ricorrenze sono tali perché tempo prima – magari un tempo di altra epoca – si sono create le condizioni affinché quell’evento si materializzasse.
Mi dice ancora la vocina, per corroborare ed esemplificare la sua tesi, che il grunge è sì esploso nei Novanta, ma di fatto è nato qualche anno prima.
Bisogna sempre ascoltarle le vocine)
Quindi, la qualità c’era, ma anche qui il decennio non smentì la propria ambivalenza perché nel bilancio finale non mancheranno parecchie voci di assoluta mediocrità o di inutile ridondanza.
E nei Novanta capitava anche che le favole si dissolvessero, magari sul più bello, e anche gli eroi cadessero, magari definitivamente, e nella rapidità della capitolazione, e nel lasso di tempo fra il successo e la sconfitta c’è tutta l’essenza di quei dieci anni.
I Novanta sono Ayrton Senna che si schianta ad Imola per un cedimento al piantone dello sterzo.
Sono Freddy Mercury che muore di AIDS.
Sono l’Italia che getta via due Mondiali ai rigori (forse tre).
Sono Marco Van Basten che gioca la sua ultima partita a 28 anni per i guai alla caviglia.
Sono Kurt Cobain che a 27 si suicida.
In compenso nacquero i programmi televisivi urlati e di conseguenza gli sbraglioni di professione ed anche la politica imboccò senza indugi la via della spettacolarizzazione (un ossimoro, visti i personaggi in campo), nei media iniziò una fase di morbosità che con la scusa dell’audience, o delle copie vendute, traslocò anche nella vita di tutti i giorni e a forza di evoluzioni tecnologiche non separerà più il pubblico dal privato, la condivisione dalla riservatezza, l’ego dalla vergogna.
Dalla maglietta fina e stretta si passò a maglioni e camicie tre taglie più larghi del dovuto (grazie grunge!), dove per immaginare qualcosa (qualcosa, figuriamoci tutto) ci voleva altro che una fervida fantasia.
Ma chi se ne frega, da allora possiamo comunicare come vogliamo, da dove vogliamo e in quanti vogliamo.
Unica condizione richiesta: essere soli.
E’ la tecnologia, bellezza.
Ad ogni prodotto multimediale che veniva lanciato sul mercato le strade, le piazze ed i bar si svuotavano un po’ di più.
Oggi non c’è tanta gente in giro fuori, nei primi Novanta ce n’era decisamente di più, anche di martedì.
I Novanta hanno accolto l’ultima generazione di ragazzi analogici, quelli che le emozioni preferivano prima viverle piuttosto che immortalarle in una foto, quelli che i ricordi non li hanno salvati in una chiavetta USB ma se li portano dentro tutti perché autentici, avevano una sorpresa nel sapere chi ci sarebbe stato e chi no nel ritrovo, lo squillo del telefono (di casa) poteva far battere il cuore, sono stati gli ultimi a spedire una cartolina, a scrivere una lettera, e a sperare di riceverle (e a godere nel riceverle), creavano le loro compilation su musicassetta con degli strani rumori fra un pezzo e l’altro, per se stessi e per gli amici, e per quelle che speravano divenissero più di amiche, gli album musicali erano prima agognati, poi frustati, ma sempre custoditi con cura, le loro compagnie erano numerose, più delle chat di oggi, con la differenza che allora l’obiettivo era il contatto, oggi il contatto è solo una funzione della rubrica del telefono.
Siamo stati fortunati, noi, ad essere quei ragazzi.
Da allora abbiamo avuto sempre più opportunità, più occasioni, più possibilità, più tutto, ma per star bene dobbiamo filtrarle, rigettarle, selezionarle.
La qualità della vita ci è migliorata solo se siamo noi a gestirla, fattispecie non sempre così scontata.
E così semplice.

Cosa resterà degli anni Novanta?
Una prima parte, di autentico fermento.
Una seconda, di autentica fermentazione , il traghettamento verso gli inutili Duemila.
Una splendida incompiuta, tanto illusori quanto raggirati loro stessi, complessati da quel conflitto interiore mai sopito fra svoltare ad U e imboccare una faticosa salita o proseguire in una discesa, ma col burrone, alla fine la mancata decisione pesa più di quella presa.
Un desiderio di cambiamento tramutato mestamente in ratifica della restaurazione, anni iniziati da incendiari e finiti col Tamagotchi.
Gli Anni Novanta sono un fotogramma sempre nitido.
Stai per toccare con un dito il cambiamento, ma ti sfugge.
E sai che quell’occasione non tornerà più.

Ottanta all’ora

10 Feb

Se gli anni Settanta, in Italia, sono ufficialmente iniziati con Piazza Fontana (la mamma di tutte le stragi, 12/12/1969), gli Ottanta vedono la luce il 02/08/1980 nella stazione di Bologna.
Dopo un decennio di esasperazioni la parola fine viene apposta con la stessa vigliacca modalità di come erano iniziati gli Anni di Piombo, ma diametralmente opposte saranno strategie e finalità.
Meccanismi disumani e perversi che una coscienza non può che ripugnare e disprezzare.
Il decennio vedrà poi i titoli di coda, in mondovisione ed a reti unificate, con la caduta del Muro e la rivolta di Piazza Tienanmen per proiettarsi negli illusori, enigmatici e contraddittori Novanta.
L’Italia, all’acme del proprio prestigio, non lo sapeva ancora, ma stava già sprofondando: vittima designata del nuovo scacchiere internazionale, svenduta da servilismo, insipienza, pressapochismo, tornaconto personale e dal quel male atavico identificabile come l’opposto dell’amor di patria.
Cause esogene ed endogene ed il delitto fu servito quando ancora la banda suonava.
Gli Ottanta hanno quasi quarant’anni ma non li dimostrano, fedeli alla propria effige di eterni e scanzonati teenager.

Giudicare un periodo senza farsi condizionare dai ricordi (specie se giovanili) è dura.
Sono stati anni istrionici, divertenti, esagerati, erano costruiti per quello, il risultato del più bieco utilitarismo: tutto va ben (Madama la Marchesa) purché dia piacere.
A pensare e a riflettere avremmo fatto in tempo domani.
Un proposito che stiamo ancora rimandando.
Non che la sostanza mancasse, semplicemente le veniva preferita la forma, il più possibile vistosa (e pacchiana) anche a discapito dell’eleganza, stupire era una missione, il piacere doveva essere inversamente proporzionale alla profondità, il divertimento sedare coscienze e spirito critico, pure la ribellione era ricondotta nella sfera più edonista, pareva che il limite non avesse fine e l’unica regola da seguire diligentemente fosse l’eccesso.
Ci si prendeva poco sul serio, anche le ultime puntate della Guerra Fredda avevano perso credibilità.
Prevedibili come la trama di Rocky 4.
In Italia erano gli anni della Milano da bere.
Abbiamo bevuto.
Anche troppo.
Fuori dai confini si respirava la stessa aria perché chi aveva commissionato gli Anni Ottanta pretendeva massificazione e leggerezza e spingeva le persone a cotonarsi non solo i capelli ma anche il cervello sottostante.
Dieci anni intensi, sempre di corsa – sono volati via in un istante – non c’era tempo né voglia di fermarsi e nella frenesia alcune cose riescono meglio, altre peggio.
Questa atmosfera elettrica sprigionava una sensazione che tutto potesse essere aumentato, incrementato, superato, anche questa era speranza – o una sua astuta sublimazione – infatti sembrava che i poli fossero solo quelli positivi.
E’ stato un decennio dove la secolarizzazione, la libertà di espressione, di costume e l’esaltazione dell’ego hanno impazzato; agognate per non so quanto, si sono materializzate una in fila all’altra.
Tutto bene quindi, anzi benissimo.
Beh, quasi, visto che ci siamo emancipati più come consumatori ed esibizionisti che come uomini liberi, alla fine quell’individualismo sfrenato che ne è scaturito non ha arricchito il singolo ma in compenso ha impoverito tutta la collettività.
Collettività: un termine talmente dimenticato in quei patinati dieci anni che ha rischiato di atrofizzarsi.
Quel decennio è stato pajettes e luci stroboscopiche ficcati negli occhi, per permettere al manovratore di portare avanti la nuova fase del capitalismo incentrata nel rendere superati ed obsoleti equilibri e conquiste pagati a caro prezzo (ovviamente dai poveracci).

Nella storia certi eventi sono casuali, tanti altri no, il Muro di Berlino poteva cadere solo negli Ottanta, ma qualcuno, allora, trafelato dai peana sulla libertà e dal giubilo per la vittoria della democrazia, non capì che assieme ai quei cupi e grigi calcinacci si sgretolò anche un argine al liberismo – certo, un argine cupo, un argine che opprimeva e faceva paura, siccome però la dicotomia sui buoni e cattivi aveva già attecchito ben prima degli Ottanta e non mollerà certo la presa dopo, individuato il cattivo (l’Urss e la sua galassia), per esclusione, chi lo combatteva era considerato il buono, che così buono non era (e non è) e poteva permettersi tutte le nefandezze che voleva.
Ai tempi – in uno Sliding doors ante litteram – le persone giocavano ad immaginare come sarebbe stata la loro vita oltre quel Muro, ad est come ad ovest, sfogliando immaginazione, speranza, supponenza, dubbio.
Il Muro sapeva anche unire.
A noi andò decisamente meglio a nascere e a vivere da questa parte, ma tanti diritti conquistati li dobbiamo all’esistenza di quello che era dipinto come il terrore puro, mentre alle popolazioni oltre cortina andò davvero peggio quando assaggiarono gli effetti del libero mercato post caduta.
Spruzzare concetti filosofici in un articolo sugli Anni Ottanta è come parlare di uncinetto in una fonderia, ma per disquisire sul Muro senza l’ortodossia delle opposte tifoserie dobbiamo affidarci alla teoria dei pesi e dei contrappesi: al Mondo faceva bene che qualcuno provasse ad opporsi agli sceriffi a stelle e strisce, faceva bene non per ciò che era e rappresentava, ma per quello che controbilanciava.
Se guardiamo alla storia il socialismo è stato il solo a tenere a cuccia il liberismo che dalla caduta del Muro ha invece proliferato – che poi l’Urss non fosse l’applicazione del socialismo è un concetto per quelli che amano approfondire.
Come l’Occidente forse non è la patria della libertà, visto che anche in quegli anni che precedettero il 1989 in nome dell’anti-comunismo vennero appoggiati, o addirittura creati, sistemi anche più dittatoriali di quello sovietico.
La caduta del Muro è stata emotivamente coinvolgente per vicende personali che non potevano non commuovere, l’istinto ci spingeva a solidarizzare e a reputarla una conquista, per certi versi lo è stata, ma politicamente fu una tragedia.
Ai servizi televisivi in salsa strappalacrime sulle crudeltà del Muro dovrebbero far seguire quelli sugli effetti, altrettanto catastrofici, creati in giro per il Mondo dal capitalismo d’assalto globalizzato, che dal quel 1989 non ha avuto più rivali.
Iniziarono a ripeterlo con le prime dirette che assieme al Muro era caduto anche l’ultimo regime autoritario del Novecento e la litania non si è ancora spenta – la classica mezza verità o mezza bugia – peccato che questi prezzolati storiografi a senso unico non ci abbiano mai spiegato perché senza più nemici della democrazia il Mondo a trazione amerikana sia sempre peggiorato avviluppandosi fra guerre ed isterismo.

L’Oscar per il miglior attore protagonista andrà al duo Reagan-Tatcher,
le scorie della loro interpretazione ci contamineranno ancora a lungo: sono riusciti a demonizzare tutto ciò che è pubblico associandovi ogni infamia, hanno fatto biasimare, contestare e lasciar cadere i concetti di solidarietà e Stato sociale da chi ne avrebbe bisogno (ovvero la gente comune) e a far loro rincorrere chimere che li stanno sbranando.
La Regina del decennio invece è stata lei, la Televisione, in una nuova livrea un pò imputtanita ma ancora incisiva; il suo predominio assoluto in tema di persuasione verrà presto ridimensionato da tecnologie allora agli albori.
Sempre a quel periodo si deve lo sdoganamento del tamarrismo e dell’ostentazione: considerati comportamenti deplorevoli solo qualche sera prima, sono mutati in vanto e oggi ulteriormente rinfocillati fino a divenire parte integrante per il successo.
Sotto il vestito niente, o comunque poco.
Associare la parola musica agli Anni Ottanta significa entrare in un’aporia.
Gli Ottanta musicali sono stati idolatrati, demoliti e riabilitati.
Ancora oggi c’è chi li adora e chi li brucerebbe.
Il punto è capire di cosa parliamo, perché ci furono cose straordinarie (più o meno sottotraccia) e un bel pò di merda (sempre in bella mostra).
Ma non più di oggi, anzi.
In qualsiasi epoca la ricerca della novità stilistica si basa sulla rottura degli archetipi in vigore.
Neanche il tempo riesce ad essere un imparziale giudice sul risultato ottenuto, per fortuna anche lui cambia idea, prende dei dritti, torna sui suoi passi, sentenzia e poi rivaluta.
Nonostante il decennio sia stato una generosa fucina di generi, artisti e pezzi a dir poco geniali, nell’immaginario popolare il paradigma erano (e sono) le mitragliate di sintetizzatori e quei ritornelli orecchiabili ancor prima di averli ascoltati, tanto che diversi musicisti, anche quelli dotati, anziché tentare il qualcosa in più si accontentavano di seguire quell’onda lunga, evidentemente più ap-pagante.
Comunque se qualcuno vuole ascoltare della gran musica gli Ottanta sapranno essere generosi.
In quel decennio poi c’è stata la summa dello sport: Calcio, Formula Uno, Tennis, Rally, Basket, Motomondiale.
Si sono dati appuntamento una pletora di talenti per epici duelli ancora incontaminati (o comunque poco) da esigenze televisive, ridondanza di schemi, atletismo esasperato, tirate di culo degli sponsor e controlli elettronici.
E nelle domeniche italiane si aggiungeva 90° Minuto con le sue pause chilometriche, i suoi ritmi blandi ma a loro modo serrati, i suoi inviati elegantemente caricaturali, i suoi riti prevedibilissimi ma attesi ogni settimana con ansia.
Oggi lo sport è più professionale, più vincente, ma ha forse perso quella poesia che lo rendeva assieme nobile e popolare.

Opporsi agli Ottanta, avendoli vissuti in prima persona, era quasi impossibile.
Nel decennio le voci fuori dal coro c’erano ma venivano fagocitate dalla stessa architettura fino a renderle smaccatamente anacronistiche, oltremodo decontestualizzate esattamente come chi le proferiva.
Durante una chiassosa festa quante voci non si sentono…
Gli Anni Ottanta vivevano di pubblicità, erano essi stessi pubblicità e, seppur monopolisti, vendendo il loro prodotto all’inizio non hanno fatto pagare niente perché erano un accecante diversivo per spingere le persone verso la mentalità neo-liberista, salvo farle poi sentire in colpa con l’accusa di aver vissuto sopra le proprie possibilità, evidente scusa per andare avanti con la macelleria sociale e col taglio dei diritti nei decenni successivi – ovvero la conclusione del piano.
Infatti gratis non c’è nulla, il redde rationem è un tipo dalla buona memoria che si segna tutto, specie quando è il padrone di casa che ha deciso di scombussolare la morfologia sociale scaturita del trentennio post guerra.
Ti facevano credere che il protagonista fossi proprio tu, confessandoti solo dopo che invece eri solo la vittima.
Anzi, manco cagandoti di striscio, visto che l’indifferenza è cresciuta di pari passo con la convinzione che l’individuo potesse fare a meno della comunità.
La libertà sa diventare aguzzina quando viene scomodata per secondi fini.
Gli Anni Ottanta sono stati il prototipo della attuale società imperniata sull’apparenza come mantra, competitiva solo se il risultato è il profitto, che corre per autodistruggersi, che abbassa volontariamente la qualità e scarta tutto ciò che possa nutrire una testa pensante, ma ricordarli con un pò d’affetto, quegli anni, o in qualche caso anche rimpiangerli, non è sinonimo di dissonanza cognitiva.
Perché ancora la speranza era palpabile (o era qualcos’altro ma faceva comodo catalogarla così).
Perché il nuovo aveva appena attecchito quindi la semplicità a la voglia di stare insieme venivano ancora a galla.
Perché a desiderare un pò di spensieratezza non si cade nell’ignominia.
Perché c’era sì la consapevolezza che il mondo stesse cambiando, ma come nelle favole c’era l’illusione di poter prendere solo il buono di quel nuovo corso, cristallizzando il resto.
Ah, accidenti anche alle favole, a volte.

Gli Anni Ottanta sarebbero stati l’ideale complemento d’arredo di ogni decennio.
Ne sono invece diventati i muri portanti.

Liberismo cosa?Liberista chi?

11 Ago

Spesso assomigliamo a quel cielo che promette tempesta e diluvi ma che arriva a partorire a malapena un’innocua pioggerellina.
Passiamo dall’indignazione alla timida protesta (o alla fievole reazione) peraltro tardivamente, sovente quando i buoi non solo sono già scappati ma anche difficilmente rintracciabili.
Lo facciamo quando il torto è palese, conclamato e consacrato o quando hanno toccato il nostro orticello, mentre se depredano quello del vicino, beh, dispiace, certo, ma sono poi affari suoi.
La vecchia storiella dei pochi uomini organizzati che riescono a comandare i tanti disorganizzati andrebbe riletta ogni tanto la sera prima di addormentarsi.
Il potere non la legge, perché la conosce a memoria e su queste debolezze ha imperniato le proprie fondamenta.
Quando si combatte ed in gioco c’è la sopravvivenza sarebbe d’uopo conoscere il nemico, diversamente è come menare dei fendenti a caso in aria mentre il tuo dirimpettaio ti fa arrivare delle chirurgiche sciabolate nei punti vitali.
Ogni epoca ha il suo fascismo, scriveva Primo Levi.
Bisognerebbe però individuarlo.
E non ex post.
Pier Paolo Pasolini invece parlava degli archeologici antifascisti, di quelli cioè che fingono di combattere un fascismo che non c’è più perché non riescono (né vogliono) combattere quello in essere.

E meno male che si inizia a parlare di liberismo e a metterlo sul banco degli imputati (invero mai abbastanza), ma se l’interlocutore non conosce il termine chissà a quali viaggi mentali si aggrappa e per un complicato meccanismo cerca altri colpevoli, magari proprio quelli che gli ha suggerito la fedifraga dottrina liberista.
Ricordate quando in qualche racconto si narrava di grigie città, cupe come le fabbriche che nascevano dalla sera alla mattina, coi fiumi che iniziavano la loro metamorfosi del colore e si respirava nell’aria l’acre odore del carbone, coi bimbi ficcati nelle canne fumarie e costretti a lavori pesantissimi in turni massacranti, dove chi si ammalava al lavoro perdeva il posto, dove il padrone della fabbrica era il padrone di tutto, macchinari e vite senza soluzione di continuità, dove nella società chi aveva la fabbrica e produceva poteva fare quel cazzo che gli pareva.
Erano i tempi in cui si era partorita l’idea che il mercato dovesse avere la precedenza su tutto, perché il mercato è giusto, il mercato si auto-regola, il mercato è la soluzione migliore per tutti.
Ricordate?
Senz’altro, forse qualche tempo fa eravamo più sensibili, comunque sia, erano i tempi successivi alla rivoluzione industriale, metà Ottocento, primi Nocevento e le nuove teorie economiche che sembravano far spiccare il volo al Mondo, lo fecero implodere, portando solo inquinamento, miseria, tanta miseria, nascite di regimi e guerre in un diabolico circolo vizioso.
Tutti puntano il dito solo contro il nazionalismo quale fonte delle dittature e di future annesse disgrazie, omettendo gli effetti che ebbe anche il liberismo.
I due conflitti mondiali scoppiarono dopo due periodi marcatamente orientati al laissez faire ed il passo dalla crisi alla guerra parve il più naturale possibile.
Dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio dei’70 vi fu una pax farcita di grosse conquiste sociali ed economiche, ma qualcuno si accorse che quell’architettura non gli avrebbe più permesso di aumentare oltremisura gli affari – che già faceva, ma che non erano sufficienti.
Studio di teorie economiche in laboratorio, approccio ed applicazione da far impallidire l’idealismo tedesco, cinismo machiavellico: benvenuti nella seconda fase, quella del neo-liberismo.
L’inizio fu volutamente inebriante in quegli scoppiettanti anni Ottanta, appositamente costruiti per non pensare e per non far vedere il retro della medaglia sulla quale si iniziavano ad incidere i precetti quali lo sfascio dello Stato sociale ed i capitali liberi di girare per il Mondo (con gli uomini a corrergli appresso con affanno), con le nuove dottrine economiche che prendevano il posto della religione in un passaggio di consegne fra monoteismi.
Con qualche timida crisi, durata al massimo un colpo di tosse, si arriva ai primissimi ’90 e nel frattempo si sono tutti convertiti al nuovo pensiero dominante ed eccoci entrati nella fase attuale, che come precisa ogni volta il Professor Cassinadri, è quella dell’ordo-liberismo (ovvero ordine liberista): globalizzazione go go, intensificazione della mondializzazione, crisi finanziarie create ad hoc, disastri curati da chi li ha creati, privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite con cure da cavallo, una società sempre più liquida guidata sempre più da entità astratte.
Il sistema non è nemmeno da mettere in discussione, solo che prima i profeti, gli esegeti e gli attori erano dichiaratamente liberisti, mentre oggi si sono travestiti da progressisti e tante altre maschere.
Perché più che fra destra e sinistra (categorie che un senso ce l’avrebbero ancora, ma sono spesso strumentalizzate) o fra conservatori e progressisti (contenitori inventati dal medesimo produttore, quindi privi di significato) dovremmo iniziare a svegliarci e capire chi dà la precedenza all’uomo e chi alla crescita economica, chi difende i diritti degli esseri umani e chi il profitto tout court.
L’uno (il profitto) sacrifica l’altro (l’uomo).

Ma in concreto, molto in concreto, cos’è il liberismo?
La distruzione delle piccole comunità è il liberismo.
La distruzione delle piccole imprese è il liberismo.
La distruzione di tutto ciò che è piccolo è il liberismo.
La distruzione di usi, abitudini e tradizioni è il liberismo.
La demonizzazione di tutto ciò che è pubblico e collettivo è il liberismo.
L’eliminazione del concetto di interesse comune è il liberismo.
Screditare tutto ciò che si rifà al passato è il liberismo.
Mentire sulle teorie economiche è il liberismo.
Mentire su cause e rimedi delle crisi è il liberismo.
Le riforme di cui ha bisogno il nostro Paese sono il liberismo.
Le balle e le vigliaccate per far passare le riforme sono il liberismo.
Il way of american life è il liberismo.
L’Euro è il liberismo.
Il è il liberismo.
Il è il liberismo.
Il è il liberismo.
Lo spread è il liberismo.
Ciò che è accaduto in Grecia è il liberismo.
Svendere e tradire la patria è il liberismo
I trattati sul commercio internazionale sono il liberismo.
La globalizzazione è il liberismo.
I mercati finanziari sono il liberismo.
Il potere dei mercati finanziari è il liberismo.
L’eliminazione di tutte le autonomie è il liberismo.
La chiusura di un punto nascite in montagna è il liberismo.
La riduzione dei posti letto e la chiusura di reparti in un ospedale di montagna è il liberismo.
La chiusura di altri ospedali d’Italia è il liberismo.
La riduzione dei posti letto in tutti gli ospedali è il liberismo.
La riduzione dei posti letto nelle terapie intensive è il liberismo.
L’inaugurazione di cliniche private è il liberismo.
La sanità fonte di ricavi è il liberismo.
Fra sette mesi con la mutua e domani a pagamento è il liberismo.
La sanità a pagamento è il liberismo.
La sanità dove un gesso ad un polso costa 20.000 $ è il liberismo.
La sanità dove se stai morendo ma sei senza assicurazione nessuno ti caga, è il liberismo.
Operare pazienti senza motivo è il liberismo.
Far mangiare della merda pur di guadagnare è il liberismo.
Avvelenare pur di guadagnare è il liberismo.
Gli alimenti e gli animali importati dall’estero sono il liberismo.
La frutta e la verdura distrutte per poi acquistarle da altri Stati è il liberismo.
I tagli alla scuola pubblica sono il liberismo.
I contemporanei incentivi alla scuola privata sono il liberismo.
La scuola pubblica scadente per molti e quella privata eccellente per pochi è il liberismo.
La demonizzazione della cultura è il liberismo.
Rincoglionire la gente con luccicanti cazzate è il liberismo.
Lobotomizzare la gente con la tecnologia è il liberismo.
Inneggiare ad una società senza radici è il liberismo.
I neologismi inglesi sono il liberismo.
L’eliminazione delle lingue nazionali e dei dialetti è il liberismo.
Le pensioni da fame sono il liberismo.
La pensione che non ci daranno è il liberismo.
L’azienda che de-localizza è il liberismo
Un ragazzo precario è il liberismo.
Un cinquantenne precario è il liberismo.
L’insegnante pubblico precario è il liberismo.
Le aziende precarie sono il liberismo.
Rendere tutto precario è il liberismo.
Gli esodati sono il liberismo.
La disoccupazione creata appositamente per ridurre i salari è il liberismo.
Far passare la voglia di lavorare è il liberismo.
Il debito pubblico brutto, sporco e cattivo è il liberismo.
Il debito pubblico creato appositamente per destabilizzare il welfare è il liberismo.
I popoli del Sud trattati da sfaticati e spendaccioni sono il liberismo.
La demonizzazione del posto fisso è il liberismo.
La fine del posto fisso è il liberismo.
Le guerre chiamate in mille altri modi sono il liberismo.
L’immigrazione selvaggia è il liberismo.
Servirsi degli immigrati per togliere i diritti a tutti è il liberismo.
Costringere la gente ad emigrare è il liberismo.
Attirare con l’inganno i migranti è il liberismo.
Lo sfruttamento dei paesi poveri è il liberismo.
Voler far diventare poveri altri paesi è il liberismo.
Il produci consuma crepa è il liberismo.
Far girare le merci, il capitale e le persone come trottole è il liberismo.
Rendere tutti apolidi è il liberismo.
Vedere l’uomo come il mezzo per produrre è il liberismo.
La massimizzazione del profitto è il liberismo.
Le multinazionali sono il liberismo.
I metodi delle multinazionali sono il liberismo.
Gli effetti delle multinazionali sono il liberismo.
Privatizzare tutto è il liberismo.
Privatizzare anche l’acqua è il liberismo.
Privatizzare impoverendo il privato è il liberismo.
Privatizzare anche il buco del culo è il liberismo (Mauro dixit)
Impoverire l’imprenditore è il liberismo.
Trattare l’uomo alla mercé dell’oggetto che produce è il liberismo.
Togliere la sovranità è il liberismo.
Togliere l’indipendenza è il liberismo.
Togliere la dignità è il liberismo.
Inneggiare all’uomo usa e getta è il liberismo.
Basta che si guadagni è il liberismo.
I servizi pubblici non possono essere in rimessa è il liberismo.
Il più bravo è chi guadagna di più è il liberismo.
Il cinismo come costante è il liberismo.
Mettere uno contro l’altro è il liberismo.
La guerra fra i poveri è il liberismo.
Non tollerare i vecchi è il liberismo.
Costringere i vecchi ad essere giovani è il liberismo
Togliere i diritti uno alla volta è il liberismo.
Togliere i diritti e farti sentire in colpa perché finora li hai avuti è il liberismo.
Il fumo negli occhi di certi diritti per toglierne altri è il liberismo.
La manipolazione della realtà è il liberismo.
Far credere sempre alla versione ufficiale è il liberismo.
Creare una cittadinanza allineata al pensiero unico è il liberismo.
Rendere reietti i dissidenti del pensiero unico è il liberismo.
Solleticare gli istinti più biechi è il liberismo.
Ignorare la pietà è il liberismo.
Creare disagio sociale è il liberismo.
Rendere la società liquida è il liberismo.
Creare una società esasperata è il liberismo.
L’eterno ricatto è il liberismo.
Creare fratture sociali è il liberismo.
Far rimanere le persone in uno stato perenne d’ansia è il liberismo.
Cancellare la storia senza nemmeno riscriverne un altra è il liberismo.
La plutocrazia è il liberismo.
Lo sfruttamento delle persone è il liberismo.
Il disprezzo per il debole è il liberismo.
Il disprezzo per il povero è il liberismo.
Il disprezzo per il perdente è il liberismo.
L’ossessione per il successo è il liberismo.
L’ossessione per la ricchezza è il liberismo.
L’invenzione di nuove classi sociali è il liberismo.
Creare disparità e disuguaglianze sociali è il liberismo.
La discriminazione di classe è il liberismo.
L’annientamento intellettuale è il liberismo.
Soffocare il libero pensiero è il liberismo.
Spacciare la spersonalizzazione per individualismo è il liberismo.
Fottersene dell’ambiente in cui viviamo è il liberismo.
Produrre per consumare è il liberismo.
Sobillare una vita di facili guadagni è il liberismo.
Far sentire in colpa il povero è il liberismo.
Costringere tutti ad essere imprenditori di se stessi è il liberismo.
Mettere i bastoni nelle ruote degli imprenditori è il liberismo.
Non avere regole è il liberismo.
L’utero in affitto è il liberismo.
Eliminare le parole equità,sociale, morale e coscienza è il liberismo.
Far soffrire le persone pontificando che è colpa loro è il liberismo.
Prima il soldo poi i soldi è liberismo.
Il soldo che deve generare altro soldo è il liberismo.
Il soldo nelle mani di pochissimi è il liberismo.
La creazione di un cinismo preistorico nel tempo moderno è il liberismo.
I mega-ricchi sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri è il liberismo.
Trovare il modo per impoverire i poveri è il liberismo.
Trovare il modo per arricchire i ricchi è il liberismo.
Trovare il modo per impoverire quelli che ieri erano considerati ricchi è il liberismo.
L’eliminazione del ceto medio è il liberismo.
Far credere ai poveri che si stiano arricchendo è il liberismo.
Far credere ai poveri che un giorno si arricchiranno è il liberismo.
Le menzogne sulla meritocrazia sono il liberismo.
Far tornare l’epoca della schiavitù è il liberismo.
Far invocare le catene agli schiavi è il liberismo.
Farsi sostenere dalla parte che si massacra è il liberismo.
Illudere che tutto sia possibile e raggiungibile è il liberismo.
Illudere i sudditi che diventeranno sovrani è il liberismo.
Non si può tornare indietro è il liberismo.
Non c’è alternativa a questo sistema è il liberismo.
Una mano che ti tenta e l’altra che ti impoverisce è il liberismo.
Sradicare l’uomo dal suo territorio senza più dargli una dimora è il liberismo.
Esaltare la vita senza fissa dimora è il liberismo.
Far sentire i dissidenti anacronistici e decontestualizzati è il liberismo.
Infamare i dissidenti è il liberismo.
Eccitare per nascondere è il liberismo.
Curare il profitto e non il malato è il liberismo.
Fare affari solo col privato, ma chiedendo aiuto allo Stato quando va male è il liberismo.
Fare affari solo con certi privati escludendo tutti gli altri privati è il liberismo.
Ripetere sempre a pappagallo i mantra sulla crescita, sulla competitività, sui sacrifici, sugli investimenti dall’estero e sulle sfide internazionali è il liberismo.
Spremere le persone come limoni e ringraziandoli con un calcio nel culo è il liberismo.
Spaventare col sicuro e rassicurare col pericoloso è il liberismo.
Illudere poi annientare è il liberismo.
Creare finti bisogni è il liberismo.
Soffocare i reali bisogni è il liberismo.
Favorire sempre il grosso e massacrare sempre il piccolo è il liberismo.
Lo smantellamento dello stato sociale è il liberismo.
La macelleria sociale è il liberismo.

Se questa fosse un’indagine poliziesca, una volta circoscritto e compreso il fluttuante e viscido concetto di liberismo, bisognerebbe concentrarsi nell’individuare i liberisti.
Dovremmo condurre l’indagine con una mente aperta alla curiosità, sgombra di pregiudizi, senza la tentazione di comode associazioni di idee, perché il calderone dei liberisti è vasto, eterogeneo ed ingannevole.
C’è chi è liberista per interesse di categoria, i membri di certe èlite e di certe lobby è fisiologico che siano liberisti, è il sistema che li favorisce di più.
Non è invece così normale che fra i liberisti vi siano persone le cui categorie d’appartenenza hanno perlopiù degli svantaggi, ma la l’affiliazione è dettata da servilismo, mero tornaconto personale, leccaculismo, codardia, conformismo, ambizione, insipienza.
Tutte persone che magari ottengono qualcosina in cambio (qualcosina, ma magari no) mentre il loro tessuto sociale perde dei pezzi.
Esempio emblematico quei soggetti che un giorno sì e l’altro pure inneggiano e osannano le famose riforme, che arrivano a inscenare danze propiziatrici affinché si realizzino, salvo poi scoprire con sommo stupore che le riforme invocate con ardente passione comprendono anche il taglio dei loro posti di lavoro, ed arrivano a protestare e addirittura a scioperare.
Finita l’indagine, per tutti, il capo d’imputazione dovrà essere quello di crimini contro l’umanità.

Dopo vent’anni il candidato (ri)svolga la traccia

29 Ott

La situazione poteva apparire come un punto a favore di chi sostiene che abbiamo un destino.
Ma quelli dell’altra parte – fautori che ognuno di noi si crea il proprio – replicherebbero da par loro.
Ed entreremmo in una delle più classiche aporie.
Comunque sia, vent’anni, fa trovai sul banco della maturità questa traccia, che solo gli inviati del TG1 chiamano così, visto che per noi quello era IL TEMA di italiano:
“Quando un popolo non ha più senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori anche noi, quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia” (C. Pavese).
Discutete e sviluppate con riflessioni personali il principio enunciato nel passo su riportato.

La scorsa del titolo mi riportò, ridanciano, al pomeriggio del giorno prima, quando Mauro Pigozzi attingendo alle fonti di quel che rimaneva del Kgb mi diede la soffiata che l’argomento del tema d’attualità sarebbe stato internet.
Con fare complice lo ringraziai sentitamente come si ringrazia un amico che pensa agli altri (lui è un companero coerente) ed anche se già allora il legame e la confidenza erano forti, attesi pudicamente di riattaccare la cornetta prima di esclamare tra me e me ad alta voce <Ah, internet!Ma che cazzo è poi ‘sto internet?>
E via di corsa in biblioteca, visto che internet non c’era ancora al Peep.
E nemmeno in centro.
(Domani quando sentirò Mauro gli chiederò chi fu quell’idiota che mise in giro la voce)
Pure a quell’età sentivo il bisogno di scrivere, solo che ancora non lo sapevo.
E quindi non lo facevo, se non in qualche forma embrionale.
Avevo già un rapporto sereno ed amichevole col concetto di passato, imperniato su atavici richiami che lo rendevano un habitué del mio giovane logos.
Senza forzature, era quella che si diceva una frequentazione spontanea.
Una, due, tre letture – che non si sa mai – ed una buona fetta di tensione decise di levarsi dal mio stomaco per fare spazio alla consapevolezza che avrei fatto un buon tema.
Perché un miglior titolo non poteva capitarmi.
E così fu.
Ma da un po’ mi balena l’idea di rifarlo, quel tema.
Come mi piacerebbe rileggere il mio.
Comunque, ecco qui.

In natura solo gli alberi con le radici solide e profonde, che si diramano il più possibile, possono crescere forti, rigogliosi ed indipendenti.
Ogni centimetro di terra conquistata è l’avvicinamento a qualcosa percepito come nettare vitale, un richiamo al centro della terra, all’origine della vita.
Ma anche questi alberi possono ammalarsi e soccombere, figuriamoci quelli con radici precarie o gli esili arbusti che di radici posseggono si e no un surrogato.
L’uomo è l’animale più intelligente ma anche quello dotato del più alto tasso di autolesionismo.
La sua principale forma di apprendimento è l’imitazione, che presuppone un qualcosa di preesistente.
Il passato è inciso nell’anima delle persone, e in maniera silenziosa come solo il divenire può essere, in parte è tramandato geneticamente e con chissà quali alchimie: certi comportamenti, archetipi, cliché e paure derivano da quel biologico e sofisticato passaparola sul quale poggia la macchina-uomo.
Le esperienze di ognuno sono parte stessa delle persone.
Ma non basta affidarsi al Dna e all’istinto.
Dobbiamo imparare a frequentare appieno questo archivio (che diventa ogni giorno più vasto, ricco ma anche dispersivo), guardare negli scaffali, scegliere i documenti più attinenti ed interpretarli.
Consci che questi documenti si presteranno a più versioni dello stesso esegeta senza che nessuno lanci accuse di ondivaghismo.
Il passato è un amico consigliere dotato di scarsa iniziativa, che fa sentire la propria opinione raramente.
Fa il prezioso, sa di esserlo, va interpellato con dedizione ed abnegazione e col rispetto un po’ ossequioso che meritano le cose dotte.
E’ il depositario di una materia intelligibile ma sovente si comporta come quel vecchio nonno che teneramente fa sempre la stessa giocata per permettere al nipotino di strozzargli il carico e renderlo più emancipato.
Peccato che il discente non di rado rimanga ignorante, inetto ed insipiente.
L’esplorazione e lo scandagliamento del passato rappresentano una spiritualità immanente per vivere la propria esistenza in prima persona e non per conto terzi.
Un uomo privo di storia vive a discapito di se stesso.
Lo Stato – in un insostenibile equilibrio fra irredentismo, autonomia ed atrocità- è la massima espressione del concetto di comunità, a sua volta proiezione dell’individuo.
La storia di uno Stato non si limita alla contemporaneità o ad un esiziale positivismo, quello che è successo prima ci condiziona perché ha plasmato una collettività.
Se uno Stato non fa i conti col proprio passato arriva il redde rationem, che oggi ha le vesti luccicanti dell’ultra liberismo.
Una foggia che cela comunque la solita falce portatrice di morte.
E’ più vitale fare i conti con il proprio passato che ignorarlo acriticamente.
Senza il caldo soffio di quel che fu, una comunità al massimo sopravvive, ma non tarda ad imboccare il cunicolo dello straniamento che la conduce all’oblio e all’assopimento.
La cancellazione del passato preclude il futuro, poiché chiude delle porte che getteranno ombre e faranno rimanere bui altri pertugi, altri passaggi.
Nei quali si inserirà perfidamente qualcun altro.
L’uomo ogni giorno si evolve e crea del passato, ma rischia di dimenticarselo.
Il corso d’acqua che ci ha levigato non deve sfociare nella consuetudine.
Non è un inno allo storicismo in sé e per sé o un capriccio da nostalgite: il passato non può essere il punto di arrivo ma un balsamico viatico per il domani.
Chi è fanatico della propria storia non sopporta le altre, chi una storia non ce l’ha non ne concepisce il mantenimento per nessuno.
La storia non è da inseguire, da mitizzare tout court, nemmeno da replicare, ma una sorta di pietra filosofale dalla quale attingere.
Il nostro paese è sempre rimasto in coda senza mai riuscirci e quando ha voluto recuperare schiacciando l’acceleratore sul fanatismo ha precluso per sempre la creazione di un senso di appartenenza nazionale.
L’Italia è un esempio didascalico di eredità perduta, un sinistro con concorso di colpa fra gli esperimenti della globalizzazione (che stanno tranciando una ad una tutte le incantevoli identità locali) e la cronica imbelle pavidità del suo popolo.
Ignorare la storia è stupido e pernicioso esattamente come farsela scippare.
Oggi la frase di Pavese suona ancora più cupa, un presagio della fase 2.0 del liberismo d’assalto iniziata negli anni Ottanta ed arrivata senza soluzione di continuità fino al terzo millennio digitale.
Quello che allora pareva un semplice monito dopo soli vent’anni echeggia come un disperato tentativo di salvataggio.
Che speriamo non si perda nel vuoto.
L’essere umano è stato livellato ad una sua invenzione,il computer:con un colpo di spugna si cancella il vecchio sistema operativo che deve durare al massimo un paio di stagioni e poi via col nuovo giro.
Parimenti, lo Stato è un concetto (grossomodo) settecentesco che qualcuno ha deciso di dismettere perché il Potere viene espletato meglio in altre forme, diciamo così, più globali.
Cancellare la storia è stato il refrain di uno dei romanzi distopici più visionari:si vuole combattere la storia perché chi guarda al passato assorbe una moltitudine di persone, esperienze, idee, luoghi e situazioni che porta dentro di sé, sprigionando una salvifica spinta vitale.
Ed è più facile attaccare un uomo solo che un simile condensato di vite.
Un tempo (e non serve scomodare i secoli scorsi) chi possedeva esperienza – logicamente le persone anziane – assurgeva ad oracolo ed era il custode di un prezioso tesoro che veniva tramandato quotidianamente coi rapporti personali.
La conoscenza del passato era sinonimo di saggezza e quindi di considerazione, mentre adesso è un inutile fardello che ostacola i piani modernisti e va derisa ed isolata per il suo odore popolare e stantio.
E’ molto più moderno il caotico isolamento da tecnologia, habitat ideale per bombardare l’inerme suddito di slogan inneggianti ad un futuro e ad oggetti che si esauriranno dopo poco perché di questo vive il nuovo capitalismo.
Sono i neologismi dell’esistenza.
Ci fosse stato il vaticinato tema su internet – in quel giugno targato 1996 – sarebbe stato un inquietante passaggio di consegne.
Oramai sono in troppi a credere che la vita sia lì, nella Rete, con tutto a portata di click dove internet incarna i nuovi crismi della sacralità:profeta, tavola e verbo.
Anche la Trinità passa alla connessione multimediale.

Siamo perché eravamo.
Come eravamo, per essere ancora.
Il passato per costruire il futuro.
La vecchiaia che galvanizza la gioventù.
Nutrirsi della storia per mantenere e creare.
I paradossi e le dicotomie di cui è costellata la vita ci aiutano a svelarla.