E’ sempre la paternità che può risultare incerta, nel suo caso tutti dicevano Fiat e a pochi mesi dalla nascita è spuntata la Lancia ad apporre definitivamente il nome sul libretto ed il simbolo sulla calandra.
Sulla mamma Pininfarina, invece, non ci sono mai stati dubbi e basta guardarla per capire che lei ci abbia messo tutto il resto, o quasi.
Nella Lancia Beta Montecarlo la maggioranza dei cromosomi sono quelli materni.
La Beta Montecarlo, oltre ad essere uno dei simboli delle classiche di casa nostra, è un esempio di che coraggio e fucine di idee vi fossero nell’industria automobilistica italiana nei pur complicati Anni Settanta, se oggi qualche manager di una casa generalista proponesse di creare dal nulla una berlinetta, di commissionare il progetto e la produzione ad un carrozziere esterno e di inserirla nella gamma di una compatta due volumi, verrebbe prima sottoposto ad un TSO e poi internato, e probabilmente già al primo di questi pensieri corsari.
Nonostante la pletora di modelli disponibili c’è più immobilismo ed assenza di idee nel panorama motoristico attuale, dove la massima espressione della creatività è rialzare di qualche centimetro un’utilitaria per fare il verso alle fuoristrada (sic) o di declinare un SUV in una sgraziata pseudo versione coupé con la linea identica a tutte le concorrenti.
Ma torniamo alle cose piacevoli.
E’ un nome ambizioso Montecarlo – ad evocare una località che nel 1975 era già stata terra di conquista per le auto da rally della casa di Chivasso, e lo sarà anche in seguito – che la nostra berlinetta indossa comunque senza complessi e che si rivela un’adeguata e meritata investitura per la sua sportività e non un raffazzonato tentativo di marketing.
Compatta, bassa, grintosa, trasmette dinamismo da ogni angolo la si guardi, la Monte è una due posti secchi insospettabilmente comoda, smaschera solo se abbiamo messo su qualche chilo di troppo nelle fasi di entrata e uscita dall’abitacolo (ma sarebbe più corretto dire discesa e risalita, visti i suoi 119 cm di altezza).
Anche all’interno prosegue la sensazione di essere su una piccola fuoriserie, con ricercatezze che non passano inosservate e che confermano il senso di coinvolgimento col mezzo.
Modernissima all’epoca, non ha perduto nulla del suo fascino, anzi, oggi è definitivamente un’auto senza tempo, una mini supercar, con forme – specie nella 3/4 posteriore e nella fiancata – che ricordano qualche cugina di Maranello (i cromosomi di cui si parlava prima).
Le linee sono più tese rispetto allo standard Pininfarina, Paolo Martin non ha comunque rinunciato a quell’equilibrio, a quell’eleganza e a quella sinuosità tipiche del carrozziere torinese, qui in una salsa decisamente personale, con quei tocchi di raffinatezza imperituri (su tutti, il movimento a salire della linea di cintura all’altezza del deflettore e il raccordo tetto-finestrino posteriore-pinna).
La Beta Montecarlo è un’auto di classe con una personalità tutta sua che non ha mai patito il vorrei ma non posso, certificato dalla curiosità dei passanti la cui ammirazione è tutta per quello che si trovano davanti agli occhi.
La crisi petrolifera del ’73 (ma forse anche qualche logica interna di strategia commerciale) ha mortificato sul nascere idee ben più ardite in termini di potenza del motore, o comunque calmierato suggestioni che si fanno più o meno tutti viste le potenzialità della vettura. Insomma, venti o trenta cavalli in più ci sarebbero stati bene, ma il bialbero Lampredi (che è un gran motore) su un fisico così asciutto fa comunque una bella figura anche in una sua configurazione tutt’altro che estrema e da ottima base per versioni spinte quale è, basta poco per tiragli fuori qualche cavallo vapore in più. Ovviamente un plurifrazionato è un’altra cosa, ma nel vano motore della Beta Montecarlo c’è poi finito un po’ di tutto, dai 4 ai 6 cilindri, carburatori single o in versione coppie di fatto, iniezioni meccaniche ed elettroniche, aspirati e turbo (praticamente i 3/4 del programma sull’elaborazione di una storica).
Perché il telaio sopporta bene, ed anzi ringrazia, ed il resto della meccanica è all’altezza (anche oggi) di una vera sportiva coi fiocchi.
Con “soli” 118 cavalli le hanno forse tarpato un po’ le ali, e sapendola base per vetture iconiche, vincenti e cattive (la Silhouette Turbo e la 037) questa rimpianto aumenta. Guidandola, invece, il piacere di guida profuso, il comportamento diretto, i limiti di tenuta elevati e le prestazioni comunque brillanti inducono a godersi quello che c’è.
E a rimanere ampiamente soddisfatti.
La vettura offre quelle sensazioni di precisione ed agilità tipiche della soluzione a motore centrale, c’è poco da fare, ad averlo proprio lì dietro la schiena cambia la guida e poi l’orecchio vuole la sua parte.
O forse era l’occhio, ma con la Beta Montecarlo sono soddisfatti entrambi, occhio ed orecchio.
Il posizionamento del motore é il suo tratto distintivo, ma non si distingue solo per quello.
Divertentissima in movimento (anche senza correre), affascinante da ferma, raggiunge il parossismo della coreografia (e della vanità del proprietario) con l’apertura a pianoforte del cofano motore.
Se non è arte questa…
Non ne vendettero tante (la produzione si fermerà poco oltre quota 7.500, se consideriamo anche la versione Scorpion destinata oltreoceano), forse rispetto a quello che chiedeva il mercato venne commercializzata troppo tardi e tolta dai listini troppo presto, forse le auto con personalità (e di nicchia) non sempre vengono capite, forse doveva andare così.
Da svariati decenni le sue quotazioni sembrano dover decollare – e negli ultimi anni qualcosa effettivamente si è smosso – ma per una vettura col suo pedigree e col suo palmarès sportivo, oltretutto prodotta in pochi esemplari, la sensazione è che sia ancora sottovalutata e che se avesse un altro marchio sul cofano girerebbero dei prezzi di ben altra levatura.
Avrebbe meritato più successo, ma sapere che ne circolano poche accresce il suo blasone e quella sensazione di far parte di un ristretto club di fortunati.