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Il piacere al centro

15 Dic

E’ sempre la paternità che può risultare incerta, nel suo caso tutti dicevano Fiat e a pochi mesi dalla nascita è spuntata la Lancia ad apporre definitivamente il nome sul libretto ed il simbolo sulla calandra.
Sulla mamma Pininfarina, invece, non ci sono mai stati dubbi e basta guardarla per capire che lei ci abbia messo tutto il resto, o quasi.
Nella Lancia Beta Montecarlo la maggioranza dei cromosomi sono quelli materni.
La Beta Montecarlo, oltre ad essere uno dei simboli delle classiche di casa nostra, è un esempio di che coraggio e fucine di idee vi fossero nell’industria automobilistica italiana nei pur complicati Anni Settanta, se oggi qualche manager di una casa generalista proponesse di creare dal nulla una berlinetta, di commissionare il progetto e la produzione ad un carrozziere esterno e di inserirla nella gamma di una compatta due volumi, verrebbe prima sottoposto ad un TSO e poi internato, e probabilmente già al primo di questi pensieri corsari.
Nonostante la pletora di modelli disponibili c’è più immobilismo ed assenza di idee nel panorama motoristico attuale, dove la massima espressione della creatività è rialzare di qualche centimetro un’utilitaria per fare il verso alle fuoristrada (sic) o di declinare un SUV in una sgraziata pseudo versione coupé con la linea identica a tutte le concorrenti.
Ma torniamo alle cose piacevoli.

E’ un nome ambizioso Montecarlo – ad evocare una località che nel 1975 era già stata terra di conquista per le auto da rally della casa di Chivasso, e lo sarà anche in seguito – che la nostra berlinetta indossa comunque senza complessi e che si rivela un’adeguata e meritata investitura per la sua sportività e non un raffazzonato tentativo di marketing.
Compatta, bassa, grintosa, trasmette dinamismo da ogni angolo la si guardi, la Monte è una due posti secchi insospettabilmente comoda, smaschera solo se abbiamo messo su qualche chilo di troppo nelle fasi di entrata e uscita dall’abitacolo (ma sarebbe più corretto dire discesa e risalita, visti i suoi 119 cm di altezza).
Anche all’interno prosegue la sensazione di essere su una piccola fuoriserie, con ricercatezze che non passano inosservate e che confermano il senso di coinvolgimento col mezzo.
Modernissima all’epoca, non ha perduto nulla del suo fascino, anzi, oggi è definitivamente un’auto senza tempo, una mini supercar, con forme – specie nella 3/4 posteriore e nella fiancata – che ricordano qualche cugina di Maranello (i cromosomi di cui si parlava prima).
Le linee sono più tese rispetto allo standard Pininfarina, Paolo Martin non ha comunque rinunciato a quell’equilibrio, a quell’eleganza e a quella sinuosità tipiche del carrozziere torinese, qui in una salsa decisamente personale, con quei tocchi di raffinatezza imperituri (su tutti, il movimento a salire della linea di cintura all’altezza del deflettore e il raccordo tetto-finestrino posteriore-pinna).
La Beta Montecarlo è un’auto di classe con una personalità tutta sua che non ha mai patito il vorrei ma non posso, certificato dalla curiosità dei passanti la cui ammirazione è tutta per quello che si trovano davanti agli occhi.

La crisi petrolifera del ’73 (ma forse anche qualche logica interna di strategia commerciale) ha mortificato sul nascere idee ben più ardite in termini di potenza del motore, o comunque calmierato suggestioni che si fanno più o meno tutti viste le potenzialità della vettura. Insomma, venti o trenta cavalli in più ci sarebbero stati bene, ma il bialbero Lampredi (che è un gran motore) su un fisico così asciutto fa comunque una bella figura anche in una sua configurazione tutt’altro che estrema e da ottima base per versioni spinte quale è, basta poco per tiragli fuori qualche cavallo vapore in più. Ovviamente un plurifrazionato è un’altra cosa, ma nel vano motore della Beta Montecarlo c’è poi finito un po’ di tutto, dai 4 ai 6 cilindri, carburatori single o in versione coppie di fatto, iniezioni meccaniche ed elettroniche, aspirati e turbo (praticamente i 3/4 del programma sull’elaborazione di una storica).
Perché il telaio sopporta bene, ed anzi ringrazia, ed il resto della meccanica è all’altezza (anche oggi) di una vera sportiva coi fiocchi.
Con “soli” 118 cavalli le hanno forse tarpato un po’ le ali, e sapendola base per vetture iconiche, vincenti e cattive (la Silhouette Turbo e la 037) questa rimpianto aumenta. Guidandola, invece, il piacere di guida profuso, il comportamento diretto, i limiti di tenuta elevati e le prestazioni comunque brillanti inducono a godersi quello che c’è.
E a rimanere ampiamente soddisfatti.
La vettura offre quelle sensazioni di precisione ed agilità tipiche della soluzione a motore centrale, c’è poco da fare, ad averlo proprio lì dietro la schiena cambia la guida e poi l’orecchio vuole la sua parte.
O forse era l’occhio, ma con la Beta Montecarlo sono soddisfatti entrambi, occhio ed orecchio.
Il posizionamento del motore é il suo tratto distintivo, ma non si distingue solo per quello.
Divertentissima in movimento (anche senza correre), affascinante da ferma, raggiunge il parossismo della coreografia (e della vanità del proprietario) con l’apertura a pianoforte del cofano motore.
Se non è arte questa…

Non ne vendettero tante (la produzione si fermerà poco oltre quota 7.500, se consideriamo anche la versione Scorpion destinata oltreoceano), forse rispetto a quello che chiedeva il mercato venne commercializzata troppo tardi e tolta dai listini troppo presto, forse le auto con personalità (e di nicchia) non sempre vengono capite, forse doveva andare così.
Da svariati decenni le sue quotazioni sembrano dover decollare – e negli ultimi anni qualcosa effettivamente si è smosso – ma per una vettura col suo pedigree e col suo palmarès sportivo, oltretutto prodotta in pochi esemplari, la sensazione è che sia ancora sottovalutata e che se avesse un altro marchio sul cofano girerebbero dei prezzi di ben altra levatura.
Avrebbe meritato più successo, ma sapere che ne circolano poche accresce il suo blasone e quella sensazione di far parte di un ristretto club di fortunati.

Vecchiette con l’anima

9 Mag

Le dimensioni e la forma, per prima cosa.
L’ingigantimento è divenuto ineluttabile, ogni centimetro e chilogrammo in più è un appiattimento al dinamismo.
E una strada spianata ai SUV.
Nel definire lo stile i progettisti oggi hanno carta bianca – mentre i loro predecessori tiravano qualche accidente in più – ma spesso disegnano auto molto simili fra loro, sono più diffusi i <Copia e Incolla> che i <Crea nuovo>.
Vecchia storia, quello del pane e dei denti.
Poi il rumore.
Pensate che tristezza se tutti avessimo lo stesso timbro di voce.
Saremmo irriconoscibili, impersonali.
Le automobili moderne (al netto di qualche nobile eccezione) sono così e devono ricorrere a degli artifizi per simulare una sonorità graffiante – praticamente la versione a quattro ruote delle protesi al silicone – quando prima associare un suono ad un modello era uno sport che si iniziava a praticare da piccoli.
Infine l’odore.
Almeno fino ai primissimi anni Novanta ognuna aveva il suo, inconfondibile.
E non svaniva nemmeno dopo un atto di esorcismo in un sabato sera.
Il profumo di benzina nell’abitacolo poi è un promemoria su cosa scorra nelle vene e la soavità della sua fragranza è un assioma, inutile dilungarsi.
Per non parlare di quello che rimane impregnato nei vestiti, un lascito ormonale che solo le pasionarie si possono permettere.
Ecco il podio delle differenze fra le autovetture moderne e quelle d’antan.

Ma quello che non si può misurare – ragion per cui crea un mito nel mito – è il fascino delle auto storiche , diciamo quelle prodotte fino agli Anni Novanta.
C’è sempre un volante da girare ed una carrozzeria da portarsi appresso ma con le storiche è un modo diverso di andare in macchina.
Non ci sono filtri e correttivi, le sensazioni sono vere, dirette, non artefatte.
Esigono impegno e partecipazione, ricambiano con fiumi di passionalità e regalano quel coinvolgimento che rende libidinoso il rapporto uomo-macchina.
All’esasperazione di sensori e centraline le auto d’epoca rispondono trasudando carisma da ogni bullone, fascetta e – perché no – da qualche punto di ruggine.
Hanno una personalità, non fanno nulla per nasconderla, la ostentano anche da ferme, quella hanno e sei tu che devi adattarti, anzi, sei tu che devi scoprirla giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro.
Con qualche logica sosta dal meccanico, ma anche quelle accelerano l’intesa e rafforzano la relazione.
Le auto di allora sono la proiezione fatta oggetto di chi le ha progettate e costruite: tangibili (e distintivi) erano l’approccio, la mentalità, l’idea stessa di automobile, che si portavano inevitabilmente dietro anche i limiti e e le lacune che ogni concetto fisiologicamente possiede.
Lo stesso atto d’acquisto andava ricondotto nelle tappe fondamentali di una vita: perché si sceglieva (e sposava) una filosofia prima di un auto, con pregi e difetti annessi – ed i secondi si digerivano volentieri perché facevano parte del pacchetto.
Avevano cose da raccontare al pilota e spesso lo stupivano; lo facevano allora, continuano a farlo oggi.
Quelle attuali – infarcite di Personal Computer peggio che ad un Festival del Nerd – raccontano anche di più visto che si sono messe a parlare, ma è un copione scontato, scritto su misura per il pubblico, dove il “di più” è tutta roba superflua.

Nell’era dell’hi tech – in un ipotetico bilancio sugli oggetti di una vita – l’auto verrà ricordata alla stregua degli smartphone posseduti.
Mentre fino a qualche annetto fa l’automobile meritava uno spazio nell’album di famiglia, perché era una della famiglia
Anche quelle moderne riescono ad essere desiderabili, ma sono anche distaccate e fredde, noiosette, algide, perfettine, e le belle di oggi (perché ce ne sono) sfioriranno in fretta e non saranno mai imperiture come le antenate, perché ricordano gli elettrodomestici, che si fanno voler bene per la loro funzionalità ma se qualcuno ci trova qualcosa di emozionante è perché si è bevuto un flacone di brillantante.
Vanno decisamente forte, ma non sai se per merito tuo, loro o del programmatore delle centraline.
Per provare sensazioni simili a quelle regalate dalle progenitrici occorre moltiplicare i cavalli per 3,14 periodico.
Ed un cuore pulsante (pardon, pompante) non si trova nemmeno sfogliando la chilometrica lista degli optional, lunga più o meno come una bolletta del gas col conguaglio.
Le autovetture odierne ricalcano il loro tempo e sono come cittadini ultra-globalizzati: non posseggono una propria identità.
Sono state private dell’impronta del progettista, perché il progettista è un robot e un’impronta mica ce l’ha.
Al pari delle nuove generazioni hanno come paradigma l’elettronica, che mentre la elogi per la sua indubbia utilità ti ha già portato in un mondo virtuale e parallelo, ma che di vivo non ha niente.
Le auto sanguigne esistono ancora, ma hanno il piccolo difetto di costare almeno come un bilocale in centro.
Tempo fa essere tecnologicamente avanzati era un vanto che accresceva le prestazioni ed il blasone, oggi snatura l’auto ad un surrogato di un videogioco, perché si attinge a piene mani da tecnologie estranee al mondo dell’auto.
Estranee per chi concepisce l’automobile in maniera passionale, per chi dalla meccanica ricerca piacere, per chi ama la durezza dei comandi e si esalta alla vista di un contagiri che sfiora la zona rossa, che freme per uno scoppio in rilascio o per una doppietta riuscita a regola d’arte, che passerebbe ore ad ammirare un vano motore e l’andamento della fiancata.
Gente così, sicuramente un po’ malata, ma di una malattia sana.
L’abisso fra un supercar ed una vettura generalista dei nostri giorni – oltre alla linea e alle prestazioni – è rappresentato da quell’autentico incantesimo che è la costruzione artigianale, che nelle auto storiche invece si respira su tutte, indistintamente, anche in quelle di fascia economica, con quelle piccole imperfezioni che sanno di umano e che hanno lo stesso valore dei colpi di genio di cui sono piene.
Nell’amare le auto ultra-maggiorenni c’è più passione che moda, e la nostalgia non supera la naturale attrazione per la storia per la storia motoristica: sono allo stesso tempo mezzo e fine.
Il successo dei ramake non sarebbe una fortunatissima operazione di marketing se non poggiasse su qualcosa di incancellabile e se non potesse attingere da modelli oltremodo iconici e va nella direzione di scavare nel passato per offrire, pur rivisitato, qualcosa che ora non si può partorire.
E forse certifica una certa saturazione di nuove idee in tema di design, supercar a parte.
Se un tempo le macchine erano l’emblema del consumismo, con le storiche siamo quasi agli antipodi, perché non si deve costruire niente di nuovo, non si incentiva l’usa e getta ma il possesso (al massimo la vendita) e si esalta la storia fregandosene dell’innovazione.
Se è vero che nel Mondo moderno le passioni devono lasciare il posto agli affari o al massimo sopravvivere in funzione di essi, sarà bene scrivere un promemoria agli adepti de “Il mercato ha sempre ragione” (una setta pericolosa come tutte le sette e con l’aggravante di essere molto numerosa) ricordando loro che le auto storiche creano un fiorente indotto fra meccanici, carrozzieri, commercianti, tappezzieri e artigiani di sorta, organizzatori di eventi, riviste e pagine web specializzate.
Sarebbe il caso di sostenerle, non di affossarle isolandole ad inutile ed inquinante ferraglia.
È una materia che fa andare dietro la lavagna anche diverse Case automobilistiche, nelle cui file siedono troppi ingegneri gestionali e pochi appassionati di auto, incapaci di comprendere che non stiamo più parlando di mezzi a motore ma di un patrimonio storico e artistico da preservare.

Nelle motociclette la faccenda è un po’ differente: hanno retto bene l’attacco di modernite sopportando con disinvoltura il carico di tecnologia che in svariati casi le ha migliorate ed impreziosite (così l’autore di questo articolo non rischia l’infamate accusa di luddismo, uno dei reati più esecrabili dell’era multimediale).
La moto in due aspetti ricorda il libro: entrambi richiedono un impegno attivo e nel bene o nel male qualcosa ti lasciano dentro (la moto anche fuori, dipende se e come cadi).
La moto non è per chi cerca un comodo e pratico mezzo di trasporto, per quelli c’è lo scooter.
La moto è un generatore di emozioni autorizzata a dispensare sogni e va trattata come tale.
Senza scomodare l’Olimpo delle due ruote ci sono mezzi che possono ancora conturbare il proprietario e farlo giustamente rendere protagonista -il che vale i soldini spesi.
Anche al giorno d’oggi si possono vivere delle belle sensazioni, sentirsi pilota e non passeggero.
Ma la voglia di classiche, di scrambler, di café racer, di maschie 2 tempi e di ignoranti 125 stradali – anche tra chi non è ancora entrato negli anta– certifica la ricerca di qualcosa che forse si sta dissolvendo e che c’è voglia di disintossicarsi e distinguersi.
Una due ruote di qualche annetto fa è come un uomo che non si depila, che non si fa le sopracciglia e che non segue la moda del momento, così questi incantevoli ferri polarizzano l’attenzione di chi cerca qualcosa di essenziale, talora semplice, un po’ rude, anche grezzo, ma sempre carismatico.
Meno perfezione, più carattere.

Che siano a due o a quattro ruote, le classiche rispolverano ricordi dimenticati, fanno rivivere vecchie emozioni e provare sensazioni di epoche mai vissute.
Ti permettono di spaziare nel tempo, di ovviare alla carta d’identità, di abbracciare uno stile, un periodo, una corrente.
Di completare un percorso culturale.
Di lasciarti andare.
Una classica è il sogno di un bambino che si avvera, in età adulta.
È cercare in un oggetto la parte più romantica, l’aneddoto, la storia, l’adrenalina.
Certo, sono diventate ottime forme di investimento, ma la molla che fa scattare l’acquisto non dev’essere la rivalutazione (che fa comunque comodo, anche per darsi qualche giustificazione), ma il gusto di possederle, ammirarle, guidarle o anche solo fantasticare su di esse.
E pure la fase della ricerca e della trattativa fa parte del piacere.
Sono qualcosa che si avvicina a quella macchina del tempo da sempre agognata dall’uomo.
Se avete anche voi questa passione o se ne siete incuriositi, non abbiate paura, non è un sintomo d’invecchiamento.
Ma di vitalità.
E ricordatevi, non c’è nulla di increscioso nel volerla di almeno venticinque anni.

Semplicemente Ayrton/La vendetta è un piatto che va gustato a Suzuka

2 Mar

Estoril, 23/09/1990: grazie al secondo posto conquistato davanti a Prost il nostro Ayrton Senna ha praticamente messo tutte e due le mani sul campionato.
Diciotto sono i punti di vantaggio sullo storico rivale con tre gare ancora da disputare.
Ma nel successivo GP di Spagna un radiatore tradisce Senna e dimezza il distacco, il francese della Ferrari ritorna così teoricamente in lizza per il titolo.
Il primo ad esserne felice è ovviamente… Ayrton Senna.
Ayrton ce l’ha in testa da un anno e quella rottura permette alla sua idea di non rimanere un’astrazione, visto che il prossimo GP si correrà il 21/10 proprio nella suggestiva pista di Suzuka dove l’anno prima l’acerrima rivalità fra i due ha toccato l’apogeo.

Obbligatorio un passo indietro di 365 giorni.
In Giappone si decide ancora il campionato, è stato così anche nel 1988, solo che adesso è Senna ad inseguire il compagno di scuderia.
Anche in questa stagione l’astro brasiliano è sempre una furia, quando finisce le gare in genere le vince ma i cinque ritiri per noie meccaniche pesano sul computo della classifica e per tenere accese le speranze di bissare il successo iridato Ayrton a Suzuka è obbligato a vincere.
Senna parte davanti a tutti ma Prost lo brucia alla partenza e tenta la fuga, lentamente però il brasiliano gli si riavvicina e quando mancano 6 giri alla fine sferra l’attacco al compagno di squadra ricordandosi il suo vecchio adagio “Non esiste nessuna curva in cui non si possa superare”.
O magari inventando l’aforisma proprio in quella circostanza.
Forse tentare di sopravanzare Prost nella chicane del tringolo non è stata l’idea più fruttuosa balenata a Senna nella sua carriera, o forse è stato proprio il Professore a tessere la trappola inducendo Senna alla spericolata manovra.
Qualunque sia la congettura più plausibile, Ayrton si fionda in uno spiraglio, Alain prima allarga poi chiude la traiettoria, i due si toccano e restano appaiati nelle loro Mc Laren a guardarsi con livore e compatimento, in una delle immagini più iconiche della Formula Uno.
Prost si sfila il casco e saluta la folla, quello che voleva lo ha ottenuto, Senna si fa aiutare dagli steward , riparte passando dalla via di fuga, trova il tempo di fermarsi ai box per cambiare il musetto rovinato e poi in autentica trance agonistica riesce a raggiungere e sorpassare Nannini, sempre nella chicane, ed a vincere la gara.
Altra impresa memorabile.
Mondiale riaperto.
Per poco.
Prost fa ricorso alla Direzione gara che squalifica Senna per condotta non regolamentare.
GP a Nannini, Mondiale a Prost, rapporti ulteriormente precipitati fra i due ed inizio di belligeranza tra Senna e la FIA fra accuse, multe, revoca della licenza, pensieri di ritiro, ed un senso di rivalsa che scandaglia l’animo del pilota di San Paolo.

Torniamo al ’90.
La pista nipponica per non smentirsi è ancora teatro di un possibile match ball.
Senna è sempre affezionato alla pole position e Prost, per il terzo anno di fila, gli è a fianco.
Proprio non possono fare a meno l’uno dell’altro.
Dopo la squalifica combinata a Senna l’anno prima il capo della Fia, il francese Balestre, si esibisce in un altra mossa di palese ingerenza, stabilisce cioè di far partire i piloti qualificatisi con un numero dispari (primo,terzo,quinto,ecc.) dalla parte sporca della pista rigettando la richiesta (lecita) di Senna che sbotta:”Uno si fa un culo cosi per fare la pole e dopo viene spostato nella parte più sporca della pista”.
Non occorre essere un giallista per capire chi sarà avvantaggiato da questa scelta.
Quella decisione, palesemente ingiusta e faziosa, è comburente per quelle braci che ardono dentro a Senna e fa rivivere in lui gli episodi di un anno addietro risvegliando (od esacerbando) gli istinti più vendicativi, se mai si erano assopiti.
Come previsto (e voluto) il campione francese al via ha la meglio su Senna che alla prima curva tiene la traiettoria interna ed entra senza frenare centrando il ferrarista e facendo uscire entrambi in una nuvola di polvere.
I due si incrociano non degnandosi nemmeno di uno sguardo, nessun alterco, nessuna rissa, Senna è calmo, non esulta anche se ha appena vinto il Mondiale, ha fretta di andare ai box, in una dissonanza cognitiva per il gesto istintivamente programmato.
Speronare Prost rientra in quel novero di azioni che non fanno stare meglio ma che un uomo sente come necessarie ed ineluttabili ed il compierle è un ulteriore sforzo e svilimento ma sarebbe altresì frustrante e fucina di rimpianti non metterle in atto.
Probabilmente il pensiero di quel gesto (macerato per un anno od anche solo per un giorno) è stato più edificante della sua mera realizzazione, peraltro attesa con fervente bramosia.
La dichiarazione a fine gara del neo campione del Mondo non lascia adito al minimo dubbio “Dedico questa vittoria a chi mi ha fatto perdere il mondiale ’89… Le corse sono fatte cosi’, a volte finiscono subito dopo il via, a volte a sei giri dalla fine…”.
Il ricorso di Prost stavolta non avrà l’esito dell’anno passato e quindi ufficialmente Senna è per la seconda volta Campione del Mondo

Liberazione: se fossimo costretti a riassumere, dalla prospettiva-Senna, quel GP e quella stagione con una sola parola, il termine più adatto sarebbe quello.
La collisione con Prost e la conquista del titolo iridato sono i due spaghi di un’ingarbugliata matassa assai complicata da stendere, come arduo è comprendere quale, dei due, sia stato il mezzo e quale il fine.
Ayrton riuscì a togliersi un mostro che aveva dentro, un peso che schiacciava la sua già complicata personalità, un nemico in più che si univa ad una nutrita compagnia, di cui si liberò divenendo l’esorcista di se stesso.
La vendetta ha un significato etimologico solitamente negativo, al pari della reazione, nella vita come nello sport, che trascina la vittima nella stessa suburra del carnefice finendo per coprirli della stessa onta.
Senna col botto di Suzuka sdoganò questo ignominioso comportamento con un gesto umano, impavido, intimo, individualista, personale, proprio di chi vuole riprendersi quanto scorrettamente depredatogli.
Il cattolico Senna sembrò affidarsi alla Dea Nemesi nel distribuire le pene secondo la legge del contrappasso: chi di sportellata ferisce, di sportellata perisce.
Il credente Senna non porse l’altra guancia ma vendicò quella colpita, non aspettò il Giudizio del Signore ma applicò – per una questione meramente terrena, viepiù prosaica come le corse – il proprio, di giudizi.
Il religioso Senna cedette al solipsismo, gli capiterà ancora nel corso della sua carriera.
L’uomo si affiancò al pilota per sistemare i conti con quelle che Ayrton riteneva delle ingiustizie ed assieme si inventarono (più che cercarono) una rivalsa nei confronti di chi voleva tarpare le ali al pilota più veloce con la politica e far provare a qualcun’altro la stessa sensazione, per punire, restituire, forse chissà, anche per sensibilizzare.
L’incidente con Prost nell’89 rappresentò una di quelle contusioni che di solito guariscono (quindi si regolano) in pista, mentre le decisioni del dopo gara (e quelle sull’ordine di partenza dell’anno dopo) furono un colpo secco, chirurgico e premeditato sferrato sopra un livido ancora pulsante che renderanno l’uomo in balia dei propri istinti di difesa più belligeranti.
Le manovre di palazzo raramente si esimono dall’essere dei soprusi e fecero scoprire, uno ad uno, i nervi di Senna, più avvezzo a circoscrivere la battaglia nel circuito che non nelle stanze del potere o a tavolino; col tempo Senna con quelle pelose situazioni imparò a conviverci, non certo a farci l’abitudine.
Il campione brasiliano fra i cordoli era un satanasso, più d’uno sosteneva che rischiasse sempre troppo e tenero non lo era mai stato con nessuno, cosicchè i suoi rivali l’avevano conosciuto alla svelta e a proprie spese e nondimeno lo avevano proclamato, obtorto collo, come il più bravo di tutti.
Ma con quel gesto Senna assurse a demiurgo, compì un balzo di autorevolezza, lui che aveva già spiccato il volo.
Fu un messaggio devastante per gli altri piloti: se già prima Senna era considerato (quasi) imbattibile ora anche i pensieri più meschini partoriti per batterlo, venivano disinnescati ed annientati alla fonte.

La vita regala degli insegnamenti quando meno ce lo aspettiamo: quella domenica mattina, con una sveglia spaesata a suonare all’alba, davanti alla televisione assistetti ad una lezione; sul rispetto, sulla remissività, sulla giustizia, sul diritto degli uomini a non farsi calpestare e a reagire, anche con la forza, quando i propri meriti vengono offuscati o peggio cancellati con metodi loschi da chicchessia.

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Semplicemente Ayrton/Profeta in patria

14 Gen

Quattro anni del blog ed un solo articolo su di LUI, questo https://shiatsu77.me/2014/08/28/oltre-il-mito-oltre-la-leggenda/.
Non ho spiegazioni, né scuse, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Facciamo che siete dei piloti e che potete attingere a mani basse dall’immaginazione per dipingere la sceneggiatura di una vittoria su una pista a cui tenete particolarmente, magari la pista di casa vostra.
Non lesinate, avete carta bianca, oltre all’ovvio epilogo sono concessi qualsiasi tipo di prologo, trama, contesto, sorprese ed effetti speciali.
In questa attività onirica vi è permesso chiedere aiuto ad amici e parenti o scomodare registi e drammaturghi.
Mi spiace deludervi, ma qualsiasi cosa abbiate partorito non raggiungerà mai le vette di pathos toccate ad Interlagos il 24/03/1991.
Fino a quella data la sentenza Nemo propheta in patria non aveva risparmiato nemmeno Ayrton Senna, che in Brasile al massimo annoverava un secondo ed un terzo posto.
Questa volta più che il suo proverbiale perfezionismo e la sua bulimia di vittorie crediamo fosse l’amore viscerale per la propria terra a creare in Ayrton un senso di incompiutezza, lui che orgogliosamente si sentiva un portabandiera di quel Brasile, con tutti i sensi del dovere che una responsabilità di quella portata implica.
Il sospetto che sia un dettaglio funzionale a scriverci un romanzato articolo potrebbe nascere: Senna, dirà qualcuno, aveva vinto già due Mondiali e si apprestava a conquistare il terzo, era il pilota più forte, famoso, pagato ed amato del circus.
Sì, ma non dimenticate mai gli orizzonti mentali del campione di San Paolo.

Che Senna partì dalla pole mi sono accorto ora che potevo fare a meno di scriverlo.
Scattò in testa eppure in diverse riprese Mansell sembrava più veloce e pareva essere in grado di superarlo ma una foratura prima rallenterà il Leone inglese, poi la rottura del cambio lo costringerà al definitivo ritiro.
Non sarà solo il cambio della Williams a creare problemi, al 60° giro nella trasmissione della McLaren di Senna si ruppe la quarta.
E sarà solo il preambolo, Ayrton in breve perdette tutte le altre marce ad eccezione della sesta.
E le Formula Uno di allora non erano esattamente elastiche come i turbodiesel che guidiamo oggi.
Nei tornanti la sua monoposto sembrava fermarsi, se Senna avesse potuto scendere a dare una spinta la sua MP4 sarebbe andata sicuramente più forte.
Senna, il pilota che aveva riscritto il concetto di guida al limite, si trovava a contorcersi perché la sua vettura arrancava rischiando a più riprese di spegnersi.
Un pò la legge del contrappasso, un pò un obolo reclamato dal destino, un pò qualcos’altro di indefinibile che dà alla storia un aura affascinante, fatto sta che si percepì che nel suo abitacolo il pilota della Mc Laren stesse combattendo contro un demone intenzionato a sopraffarlo.
Il nostro aveva le sembianze di un equilibrista che si barcamenava a gestire una situazione kafkiana, esacerbata dalla tensione per essere ad un passo dalla vittoria e di vedersela sfuggire.
E mancare un’altra volta la vittoria nel GP di casa era una fattispecie che stava logorando Ayrton.
Lo stress si mischiava all’agonia fisica in una miscela deleteria, quella condizione non sarebbe stata sopportabile a lungo.
Ma c’erano da percorrere ancora una decina di giri.
Grazie alle sue acrobazie, al raggiungimento di una momentanea atarassia (forse) ed anche ai problemi meccanici che afflissero l’altra Williams di Patrese, Senna riuscì a completare in testa anche il 71°giro assicurandosi l’agognato primo gradino del podio.
A 31 anni era finalmente riuscito a trionfare nella propria terra: il macigno che Ayrton portava dentro doveva essere un fardello pesantissimo a giudicare dalle urla che si udirono dalla camercar appena tagliato il traguardo.
Lancinanti, paranormali, disumane, toccanti come pochi altri suoni.
No, decisamente quello non poteva essere solo un grido di esultanza, aveva tutte le sembianze di una liberazione e di un’espiazione.
Il Senna dei sorpassi impossibili, del ritmo frenetico, delle traiettorie impostate schernendo le leggi della fisica quel dì si travestì da un fedele guerriero che servì allo sfinimento la causa patriottica affidatagli: il talento lasciò il posto alla sofferenza, l’estetismo fu soverchiato dalla necessità, accettò ogni tipo di angheria e di tortura pur di giungere nella sua terra promessa.
Senna finì la corsa stravolto, aveva i muscoli del collo e delle spalle completamente contratti e fu estratto a fatica dall’abitacolo.
Ma la bandiera carioca era stata issata.

La vita di Senna è sempre piombata senza soluzione di continuità nelle sue gare lasciando evidenti tracce, dal granellino al pezzo grosso così.
Già detto della brasilianità, Interlagos ’91 racchiude un altro aspetto intimo del pilota, il rapporto col padre.
Con lui (ma con tutta la famiglia) un fortissimo legame simbiotico, costellato da sudditanza e rivincite.
Dal bel documentario del 2010 Senna si vedono le immagini dei festeggiamenti nei box della Mc Laren, Ayrton scorge la figura di suo padre ed esclama un “Papà!”, quasi una tenera richiesta di attenzione e coccole che ogni figlio maschio si aspetta di ricevere dal proprio genitore.
Come dire, me li puoi fare i complimenti, me li sono meritati oggi, guarda in che condizioni ho vinto.
Il signor Da Silva (Senna è il cognome materno) accorre al capezzale del figlio ma fa appena in tempo a sfiorarlo che questi gli intima di toccarlo delicatamente ed il meno possibile.
Ora è il figlio che dice al padre cosa deve fare.
Cosa e come.
Senna quel giorno di fine marzo allontanò l’incubo della gara di casa e si affrancò da una subordinazione nei confronti del papà, anche se gli eventi di qualche anno dopo dimostreranno che emanciparsi totalmente dalla sua famiglia gli risulterà impossibile.

Rimaneva da alzare la Coppa per dare alla giornata il suggello definitivo, senza quel gesto sarebbe stata quasi una vittoria di Pirro (per favore, nessuna battuta sul pilota romano).
Senna era allo spasmo ma richiamò all’ordine le pochissime energie ancora sparse per il suo corpo per alzarla al cielo, un rito doveroso per celebrare la sua vittoriosa battaglia combattuta al solito non solo coi rivali in pista.
Senna gongolava per essere stato spolpato nel fisico e nell’anima dal suo paese, dal suo popolo.
Per avere conseguito una vittoria nel dolore.
Una vittoria del dolore.
Una vittoria dal sapore indimenticabile.

 

 

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Semplicemente Ayrton/L’importanza di partire primi

10 Ott

Quattro anni del blog ed un solo articolo su di LUI, questo https://shiatsu77.me/2014/08/28/oltre-il-mito-oltre-la-leggenda/.
Non ho spiegazioni, né scuse, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Ognuno di noi ha le proprie perversioni.
Piccole o grandi.
Non sempre confessabili.
Ad esempio a chi ama ancora guardare le qualifiche della Formula Uno consiglio di farlo seguendo i precetti del nicodemismo.
Diversamente – ostentando questa (in)salubre passione – potrebbero arrivare a casa loro delle ambulanze a prelevarli in maniera coatta.
Anch’io lo facevo (seguire le qualifiche intendo, non farmi prelevare dall’ambulanza), ma il contesto era un tantino diverso per due semplici ragioni: la Formula Uno era tutto fuorché quella soporifera processione di auto tele-guidate dai box che è oggi; ed in pista correva Ayrton Senna.

Il pilota Senna, contrariamente a quanto il suo strabordante talento induca a credere, aveva parecchie fissazioni.
Per la vittoria, lo abbiamo già visto, ma qui più che di mania siamo nell’ambito della ragione di vita.
Per la messa a punto della vettura, dove risultava più pignolo del più nerd dei suoi ingegneri anglo-giapponesi.
Non amava i giri veloci (solo 19 in carriera, un’inezia se pensiamo ai 2931 giri disputati al comando o alle sue furiose rimonte), perché sosteneva che alterassero il consumo delle gomme e quindi l’equilibrio della vettura.
Poi c’erano le pole position.
Potremmo limitarci a dire che in tutto saranno 65, record ancora imbattuto in relazioni ai Gran Premi disputati.
Ma anche il più altisonante numero necessita della prosa per dare di sé un senso compiuto.
Ed in questa rubrica-viaggio che ci sta conducendo ad Ayrton Senna, la tappa targata pole è uno di quei passaggi obbligati se si vuole arrivare alla meta.

Impossibile non scorgere un rapporto simbiotico fra il tre volte iridato e le prove.
Le pole position hanno contribuito a generare l’agiografia di Ayrton ed in cambio il fuoriclasse brasiliano ha elevato le qualifiche da sottoposte del GP ad autentica gara nella gara.
Si può affermare che la corsa durasse due giorni con il pathos equamente distribuito nel fine settimana.
Senna catalizzava talmente l’attenzione che gli ultimi dieci minuti di prove erano la quintessenza della suspense dove l’incognita era che tempo stratosferico avrebbe stampato Senna.
“Sta scendendo in pista Ayrton Senna!”, annunciava solenne il telecronista col tono di quello che sapeva di assistere a qualcosa da ricordare a lungo e questo semplice richiamo era foriero di un nugolo di emozioni che proiettavano il battito cardiaco del telespettatore abbondantemente sopra quota cento.
Sperare, soffrire e godere – in quegli attimi eterni dove le frazioni di tempo sono messe sotto il microscopio – era una dimostrazione di osmotico amore nei confronti del pilota brasiliano.
Al termine delle qualifiche i tifosi erano provati almeno quanto il loro idolo.
Anche chi non ha la passione della logica o della matematica capirà che in una pista partire davanti a tutti qualche vantaggio lo comporta.
Ma il logos che guidava il Senna-pensiero andava oltre.
E non si limitava ad una collezione, come aveva sentenziato Prost in un acido dileggio.
Dobbiamo partire dall’assunto che quando parliamo del campione di San Paolo la ricerca della perfezione perdeva ogni traccia di velleità per trasformarsi nella massima espressione del tangibile.
La pole per Senna era l’esasperazione della velocità.
E la sua conquista un piacevole obbligo.
Il giro secco era l’occasione – o forse solo il pretesto – per dimostrare la propria superiorità e per sbattere in faccia agli avversari il mix di genio e coraggio, costringendoli a confrontarlo col proprio.
I distacchi che infliggeva ai rivali (arrivava a rifilare quasi due secondi al migliore dei suoi colleghi) erano il plusvalore di considerazione fra sé e gli altri.
Gli occhi intensi ed espressivi e lo sguardo profondo una volta abbassata la visiera si tingevano di un’inaudita ferocia agonistica per annichilire l’avversario già dal sabato, mostrandogli – alla stregua dei denti di una belva- la sua stupefacente capacità di oltrepassare il limite e viverci serenamente.
Solo i grandissimi piloti possono annoverare nelle loro strategie il logorio mentale dell’avversario.
E solo i grandissimi uomini possono rischiare la propria vita per salvare quella di un altro pilota.
Per esempio quella di Eric Comas durante prove del GP di Spa Francorchamps del 1992.
Senna durante le qualifiche aveva un alleato, il piacere di guidare (alla sua maniera).
E due rivali, se stesso ed il limite.
A turno si serviva di uno dei due per battere l’altro, in un sofisticato equilibrio fra sfida e motivazione da far impallidire parecchie branche di filosofia.
Un tipo per niente competitivo Senna, eh?
Ma scevro da qualsiasi accusa di presunzione poiché il primo ad essere nel suo mirino era proprio lui stesso ed alle smargiassate preferiva le batoste (anche umilianti) nel suo terreno ideale, la pista.
La spasmodica e sistematica ricerca della pole raggiungevano il parossismo nel guanto di sfida lanciato al tempo: Senna voleva essere più veloce persino di lui, voleva che fosse il tempo ad inseguirlo e voleva mettergli il fiatone facendosi cronometrare.
E dal televisore tutti abbiamo avuto la sensazione che nei suoi giri veloci in qualifica il concetto spazio-tempo fosse perlomeno opinabile.

La leggenda di Ayrton Senna da Silva passa anche per le sue pole position, 65 capolavori che racchiudevano la perfezione, la follia, l’abnegazione e l’impossibile con la gente rapita dal suo rincorrere qualcosa di talmente veloce che solo lui poteva.
Tanto Senna inseguiva quella cosa e tanto quella cosa lo guidava.

 

 

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Semplicemente Ayrton/Vincere perdendo

22 Ago

Quattro anni del blog ed un solo articolo su di LUI, questo https://shiatsu77.me/2014/08/28/oltre-il-mito-oltre-la-leggenda/.
Non ho spiegazioni, né scuse, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Ci sono degli sportivi che anche nelle vittorie non riescono a salire completamente sulla vetta.
Altri che nelle sconfitte escono comunque vincitori.
Ad Ayrton Senna non bastava semplicemente vincere.
Perché comunque c’è sempre un vincitore e lui non voleva essere confuso con uno dei tanti.
Parimenti, quando non riusciva a centrare il suo vitale obiettivo Ayrton non finiva certo nel girone degli sconfitti.
Nossignore.
Lui anche in quelle occasioni brillava di luce propria e la sua iconografia splendeva come e più di prima.

Nelle corse automobilistiche la macchina ha sempre influito.
Ma in quei primi anni Novanta si iniziava a percepire che avrebbe scalzato il pilota nel ruolo del più influente dei due.
Nel 1993 anche l’intelligence francese avrebbero intuito a chi sarebbe andato il titolo mondiale, cioè al loro connazionale Alain Prost.
Lo sapeva ovviamente prima di tutti Senna, che veniva da una stagione tribolata.
Nel ’92 infatti la Williams-Renault con le sospensioni attive aveva palesato una superiorità imbarazzante (invero già vista nel finale della stagione 1991), mentre la Mc Laren dopo anni di dominio si ritrovava tecnologicamente indietro.
Un esempio emblematico: il cambio con comandi al volante arriverà solo a stagione inoltrata.
Non bastassero queste nefaste premesse pure l’affidabilità faceva cilecca: rotture a go go e Ayrton, con ancora il numero 1 sul musetto, chiuse al 4° posto in campionato.
La Honda, che alla monoposto inglese forniva da tempo i motori, si ritirerà dal circus iridato proprio alla fine di quella stagione e lascerà in braghe di tela la scuderia di Woking.
Senna fece carte false in inverno per andare alla corte di Frank Williams, ma quel volpone di Prost nell’anno sabbatico che si era preso, aveva trovato il tempo di scrivere anche i dettagli del suo ultimo matrimonio in carriera (quello con la Williams, appunto).
Non in senso metaforico, li scrisse proprio.
O comunque li dettò.
La clausola c’era, bella chiara ed era il classico aut aut: Ayrton Senna non potrà sedere sulla stessa monoposto.
Prost in vita sua non ha mai provato l’ebrezza di essere ingenuo, nemmeno il terzo giorno d’asilo.
Sapeva che a parità di macchina col brasiliano avrebbe vinto il suo quarto Mondiale solo sulla pista Polistil.
Senna – uno con la competitivite dieci volte i valori di riferimento – non la prese bene.
No, non è vero.
Si incazzò proprio come una bestia.
Girò perfino la voce di un suo ritiro, alla fine si accordò col team manager Ron Dennis per un singolare contratto a gettone: alla fine di ogni gara incassava l’obolo e decideva se correre quella successiva.
Senna si ritrovava un motore a soli 8 cilindri con meno cavalli nel recinto, la consapevolezza di un mezzo palesemente inferiore e sulla miglior macchina del lotto vedeva seduto il rivale di una vita Alain Prost, che lo aveva boicottato impedendogli di esserci lui, su quella macchina.
Senna in quel 1993 diede letteralmente spettacolo.

Il giorno della gara a Donington Park pioveva.
E forte.
Nelle prove sull’aciutto Senna (il re della pole) non era andato oltre la quarta posizione.
Ma quell’acqua aveva un sapore mitologico.
Ed un significato di giustizia divina.
Aveva lavato (e levato) via i favoritismi mettendo a nudo le vere qualità degli eroi in pista.
Pronti via, e Senna perdette una posizione ma quello fu il classico giorno dell’offerta speciale: una lectio magistralis assolutamente gratuita (ed indigesta) per gli altri piloti
Era quinto, dicevamo.
E li sorpassò tutti quelli che gli erano sventuratamente davanti.
Prima il giovane Schumacher, poi Wendlinger, dopo fu la volta di Damon Hill ed infine il caro nemico Prost.
Filotto.
Scusate, l’emozione mi ha fatto omettere un particolare.
Li sorpassò tutti, sì.
Ma nel corso del primo giro!
Senna quel giorno correva sulla stessa pista dei suoi rivali ma in un’altra dimensione.
Quello che agli altri opprimeva a lui galvanizzava.
Tutti erano frustrati, lui esaltato.
Per gli avversari era un calvario, per lui un trionfo.
Soave, maestoso, danzava sulla pioggia ad un ritmo forsennato.
Pare che la fisica quel giorno abbia avuto diverse crisi d’identità ed un tentativo di conversione.
Entusiasmante come vedere sfrecciare Senna sul bagnato c’era solo vedere Senna sfrecciare sul bagnato.
Direte, ma un pilota cosa può fare più di così?
Ve lo dico io, sono qua apposta.
Più di così un pilota può doppiare tutti gli altri eccetto Hill che arriverà secondo al traguardo dopo solo 1’23” e 199 millesimi.
Non si può incoronare chi è già re ma nemmeno impedire alla gloria di aggiungersi ancora al più valoroso.
Senna ricevette quel dì un’ulteriore investitura chiamata leggenda assoluta, mentre Prost subì l’onta del doppiaggio dopo essere andato in pellegrinaggio più volte ai box (cambierà le gomme sette volte).
Non avendone abbastanza dell’umiliazione in pista il francese nella conferenza stampa post gara osò lamentarsi dei problemi alla vettura adducendo ad essi la sua gara incolore (terzo, ma con poco da festeggiare).
Serafica la risposta del campione di San Paolo che lo gelò “Vuoi fare cambio con la mia Mc Laren?Io ci sto!”
Mancava solo che gli mimasse il gesto di consegnargli le chiavi…
L’esperto consiglia di andare su You Tube e di riguardare quel primo giro del GP d’Europa.
E già che ci siete mettete un cartello sulla porta con scritto “Pregasi non disturbare,sto contemplando un’opera d’arte”.

Ne seguiranno altre di vittorie in quella stagione, il bottino salirà a cinque, oltre a qualche ritiro quando era a giocarsela.
Nel Mondiale finì dietro l’iridato Prost e mai un secondo posto fu più vittoria di quello.
In quell’annata Senna era un uomo contrariato ma sereno allo stesso tempo, scevro da pressioni ed obblighi.
A suo modo e sempre con la proverbiale profondità, se ne fotteva di tutto e tutti, quasi a dire “Non lo vincerò il Titolo, ma vi faccio vedere cosa sa fare Ayrton Senna”.
Riuscì a vergare un Mondiale senza che il suo nome apparisse nell’albo d’oro.
A cotanta potenza arrivarono le sue imprese in quell’annata.
Affrancato, obtorto collo, dall’imperativo di essere l’uomo da battere è come se Ayrton fosse tornato a rivivere le stagioni alla Lotus ma con un’età più matura.
Sogno proibito di molti quello di gironzolare fra le varie epoche compilando personalmente la carta d’identità.
Chi è avvezzo a sfrecciare oltre i trecento all’ora probabilmente è ritenuto più consono per ricevere le chiavi della macchina del tempo.
Non sappiamo se quelle chiavi a Senna gliele avesse consegnate il suo amato Dio, il destino, il caso, o se erano incustodite nel box.
Certo, dilatando la vita del fuoriclasse brasiliano e mettendola in sequenza come fosse un film, quel 1993 suona come la fine di qualcosa, come un’inversione di tendenza che Senna doveva cercare o semplicemente subire.
Come se il fiume nel quale Ayrton si era bagnato nelle sue stagioni alla Mc Laren non potesse più farlo.
Non alla stessa maniera.
Un giro di boa ineluttabile per proiettare il tre volte campione del Mondo in una nuova dimensione, verso una corrente altrettanto pescosa, i cui parametri stavano però mutando.
Era sempre una spanna sopra tutti ma stavolta il suo talento gli aveva fatto conoscere un’essenza diversa della vittoria.
A lui, che viveva per quella.
Più leggendaria, meno materiale.
Chissà se il mistico e trascendente Ayrton prima di tutti seppe interpretare questi prodromi.
Perché le coincidenze quando parliamo di Senna hanno meno credibilità del solito.
Lo abbiamo capito, fu una delle stagione più insolite per Senna che si chiuderà nell’ultima gara con l’accoppiata pole position-vittoria – il marchio di fabbrica (o un altro vaticinio, saprete già il perché) – seguite poi dal passaggio invernale alla agognata Williams (Prost si ritirerà) in vista del 1994.
L’anno della sua morte.

 

 

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Semplicemente Ayrton/Mondiale alla Senna

28 Lug

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Non ho spiegazioni, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Ne saranno demoliti parecchi di luoghi comuni, di credenze e di consuetudini da Ayrton Senna nella sua carriera.
La vittoria, ad esempio.
No, siamo lontani dall’approccio decoubertiano.
Senna al riguardo aveva le idee piuttosto chiare: “La cosa importante è vincere tutto, sempre”.
Ancora: “Io voglio vincere sempre. L’opinione secondo cui la cosa importante è competere è un assurdità”.
La rivoluzione fu il come.
Sempre il pilota di San Paolo: “Ho bisogno di fare qualcosa di speciale. Ogni anno qualcuno vince un titolo. Io voglio fare di più.”
Una frase del genere poteva essere pronunciata solo da uno squilibrato o da un genio.

Torniamo al 1988, poi capiremo.
La Mc Laren MP4/4 è un proiettile, Senna e Prost due cannibali che ne faranno 15 su 16 sia nelle pole sia nelle vittorie.
L’unica gara in bianco dei due permetterà alle Ferrari di Berger ed Alboreto di trionfare a Monza a meno di un anno dalla morte di Enzo Ferrari.
Digressione doverosa.
Alla sua prima stagione alla corte di Ron Dennis il talento brasiliano fa vedere cose aliene nel condurre la vettura.
I primi ad esserne spaventati, prima che colpiti, sono quelli del suo team.
Senna in qualifica è una furia, a fine anno le pole position saranno 13.
Sul giro secco infligge distacchi che talora sono quelli di un intero GP.
Nel Gran Premio cittadino di Monaco in qualifica un Ayrton Senna in totale stato di grazia (cit.) rifila quasi un secondo e mezzo (sic) al compagno di squadra.
In quella gara arriva ad avere un vantaggio di 55 secondi sul Professore prima che un calo di concentrazione e la voglia di umiliare il francese lo facciano picchiare al giro 67.
Se in qualifica Senna non ha rivali il campionato è invece equilibrato, complici alcuni guai tecnici occorsi al brasiliano.
E non dimentichiamolo, grazie anche al valore di Prost.
Ma quando vince (cioè spesso), Senna stravince e annienta gli avversari.
C’è ancora la regola degli scarti, meccanismo più complicato e cervellotico di una proposta di legge elettorale, ed Ayrton arriva al GP di Suzuka con meno punti di Alain ma col primo match ball della stagione:se vince la corsa, il titolo è suo.
Senna parte dalla pole, Prost al suo fianco.
Tutto pronto, semaforo verde, ma la monoposto n.12 incespica e sembra spegnersi.
Ciao Ayrton, il sogno svanisce.
Il tuo Mondiale non lo vincerai oggi, forse un’altra volta, chissà.
Ma non sicuramente oggi.
Mettiti l’animo in pace, le corse sono fatte così.
Senna alza le braccia per segnalare la sua resa.
Poi la leggera pendenza di Suzuka fa riavviare il motore.
Ma solo per un attimo, poi di nuovo il buio.
Più lunghi da raccontarli che da viverli questi istanti in cui l’anima scopre i sentimenti più distanti fra loro.
Alla partenza il cuore di un pilota è già martoriato da 180 battiti al minuto, il suo è pure salito sulle montagne russe di emozioni lancinanti.
Non si sa come, ma Senna riesce finalmente a partire.
Il tempo di lasciare calmare il cervello (riporto le sue parole) ed il brasiliano inizia una feroce rincorsa.
Non è una semplice rimonta.
E’ la dimostrazione della sua superiorità.
E’ l’istantanea della sua voglia di vincere.
E’ una metafora della sua vita.
Quelle di Senna, lo avrete capito, sono favole epiche più che semplici gare.
E poteva mancare l’acqua?
Certo che no, arriva anche quella.
La fuga di Prost termina al 28° giro quando Ayrton lo sorpassa ad una velocità spropositata ed al suo cospetto il Professore sembra essere fermo.
Dopodiché Senna diventa imprendibile per tutti tranne che per le telecamere, che ce lo immortalano in festa per il suo primo Mondiale.

Dirà che a Suzuka avvertì la presenza di Dio, che fu lui a guidarlo alla vittoria.
Terrene o divine, Senna aveva accesso a risorse inaccessibili ai più.
Senna non voleva vincere in maniera normale.
Senna non poteva vincere in maniera normale.
Gli eventi glielo avrebbero impedito
Gli stessi eventi che se fossero capitati a qualsiasi altro pilota, gli avrebbero impedito semplicemente di vincere.
Eccola la differenza fra Ayrton e gli altri.
Lui è riuscito a scolpirsi il nome nella pietra combattendo con campionissimi del calibro di Piquet, Mansell e Prost.
Il talento, la classe cristallina, le qualità fuori dal comune.
Certo, tutto vero.
Ma Senna era dotato di una indomita forza di volontà, la sua cura per i particolari era più giapponese che carioca.
Era preciso fino alla pignoleria.
Avremo modo di scoprire che risulterà impossibile spacchettare le qualità (tecniche ed umane) di questo pilota meraviglioso.
Di più, lui seppe unire gli opposti, facendoli non solo coesistere, ma addirittura esaltare in questa alchimia apparentemente impossibile.
Una magia.
Genio e regolatezza.
Ricordate le sue parole?
“Ho bisogno di fare qualcosa di speciale. Ogni anno qualcuno vince un titolo. Io voglio fare di più.”
Questo sarà solo l’inizio.

 

 

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Semplicemente Ayrton/Genesi di una stella

26 Lug

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Non ho spiegazioni, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Sì, sono d’accordo con voi, paragonare fra loro dei piloti di epoche differenti può risultare tanto fuorviante quanto infantile.
Difatti i confronti sono spesso appannaggio delle trasmissioni sportive e delle riviste specializzate.
L’importante però è sapere che a metà degli Anni Ottanta le Formula Uno erano degli allegri mostri i cui motori turbo (integralisti interpreti della modalità “O tutto o niente”) superavano abbondantemente i mille cavalli.
I 1.000 cavalli, se vi fa più effetto.
Tutti violentissimi, dal primo all’ultima stilla.
Il controllo della trazione era un orpello riservato ai film di fantascienza, le gomme invece erano rigorosamente quelle di trent’anni fa.
Dei giornalisti chiesero, in momenti diversi, a due ingegneri (rispettivamente della BMW e dell’Honda) se veramente nelle qualifiche le potenze dei motori arrivassero a 1.500 cavalli.
La domanda era retorica, le risposte identiche e comicamente disarmanti nella loro appassionata sincerità “Ah, può essere…Solo che il nostro banco a rulli ne misura solo fino a 1.300, di cavalli…”
Per guidarle non bastava la vocazione del pilota, servivano anche tracce di eroismo.
Giusto per contestualizzare.

Nessun romanziere, sceneggiatore o regista avrebbe potuto inventarsi una storia così perfetta per raccontare la genesi di una stella come quella che il destino fece vivere il 3 giugno 1984 ad Ayrton Senna da Silva.
Tutto era al posto giusto, sincronizzato, in una inappuntabile successione: l’ambientazione, le condizioni, il contesto, il rivale e gli strascichi.
Tutti prodromi di quello che avverrà da lì in avanti.
Cerchi che si apriranno, si ingrandiranno, si chiuderanno per incrociarne altri e poi ripartire di nuovo in un tourbillon veloce come le monoposto.
Sono le corse, una parentesi della vita.
Gli eventi sono casuali solo per chi non vuole vederci nulla di più.

Torniamoci, a quel giorno.
Non ve l’ho detto, siamo nel circuito cittadino di Montecarlo e sul Principato dal mattino si è abbattuto un forte temporale.
Acquazzone che non si interromperà per tutta la gara.
I piloti sono consci dei rischi che corrono e si percepisce: preoccupati, tesi, nessuno ha voglia di aggiungere del rischio ad un Gp che ne possiede in abbondanza di suo già in condizioni di asciutto, figuriamoci in questa risaia.
Ed infatti nonostante i piloti seguano pedissequamente le raccomandazioni della mamma (corri, ma non troppo) ogni tanto qualcuno viene inesorabilmente falcidiato dall’acqua.
Chi da solo (ad esempio Mansell e Lauda), chi in compagnia (Warwick, De Cesaris e Tambay).
Dalle retrovie si fa sempre più notare il giovane Senna.
Un esordio in Formula Uno vale anche la sua modesta Toleman.
Nei primi cinque Gran Premi due buonissimi sesti posti per il promettente ragazzo di San Paolo.
Incurante (e non potrebbe fare diversamente) del mezzo che sta guidando Senna getta sul Mondiale di Formula Uno tutto il suo impeto e la sua voglia di emergere.
Seconda sola alla sua velocità fra i cordoli.
Ayrton sul bagnato è già un fenomeno e dopo qualche giro a remare nella pista capisce che in quelle condizioni l’auto deve essere il più guidabile possibile, la potenza (anche se la Toleman non esagera…) in condizioni simili è più dannosa che inutile.
Cosa fa?
Abbassa al minimo la pressione del turbo poi tutto viene da sè perché il limite per alcuni piloti è una chimera irraggiungibile, mentre per lui un obiettivo, un compagno di vita ed uno stimolo.
Inizia a girare in tempi fantastici, tant’è che non impiega molto a giungere fino al secondo posto a meno di due secondi dal capofila Alain Prost.
Il ventiquattrenne brasiliano assomiglia ad una belva che sta per azzannare la sua preda,niente di personale (per il momento), solo istinto.
E vista la differenza di passo fra i due il sorpasso sembra solo questione di giri.
Ma non arriva.
Perché i commissari al 32° giro espongono la bandiera rossa (giustamente?,favorendo Prost?) e gara finita con quelle posizioni: vince il francese ed il rookie Senna è secondo.
Il brasiliano si sbraccia come un tarantolato, forse esulta per l’insperato risultato, forse è incavolato perché fiutava la possibilità di salire sul gradino più alto del podio.
Delle due decisamente la seconda.
“Qui si parla francese ed è meglio che vinca un francese.” dirà il pilota della Toleman a fine gara.
La voglia di vincere si scontra da subito con le gerarchie e le leggi della politicissima Formula Uno.
Sarà la prima di una lunga serie, uno dei suoi tanti stilemi.
Senna è un predestinato, e il fato – per eccesso di zelo – ha voluto dargli un’ulteriore conferma in una sorta di caccia al tesoro dove probabilmente la mancata vittoria rientra nel disegno: per mostrargli che nelle gare essere il più forte non sempre basta, o comunque non basterà sempre a lui.
Ecco perché le sue vittorie non saranno mai vittorie normali (per quanto possa essere normale una vittoria).
Senna lo sapeva già, ed ora il Mondo intero: è nata una stella.
E da quel giorno lo capiranno anche gli avversari.

 

 

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Così piccole e magiche

23 Gen

Sono passati oltre vent’anni e non essendo più coinvolto in nessun conflitto di interessi lo posso ammettere candidamente.
Le piccole bombe degli anni Ottanta/Novanta erano delle casse da morto se finivano nelle mani sbagliate, ovvero il 97,20% di quelli che le possedevano.
E di queste meraviglie (anzi, delle due meraviglie delle meraviglie) ho scritto qui: http://shiatsu77.me/2015/07/17/francesine-tutto-pepe/.
Parimenti, dare in mano a dei sedicenni notoriamente maturi(s) degli arnesi a due ruote da quasi centottanta all’ora e con uno zero-cento coperto in poco più di sei secondi era un atto scriteriato, o di fede, a seconda dei punti di vista.
Ma necessario e di una giustizia infinita: ringraziamo che sia andata così.
Queste 125 rigorosamente due tempi invecchiando non si sono minimamente ingentilite e non hanno perso nemmeno una stilla della loro cattiveria, pertanto il loro morso inocula sempre lo stesso tipo di veleno al quale non sarà mai trovato un antidoto.
E’ giunta l’ora di parlare un pò di queste piccole motociclette che hanno un rapporto prestazioni/cilindrata imbattibile.
E non è l’unico pregio.

Il mio podio sono loro tre, ma è inutile cercare di stilare l’ordine preciso o rischierei seriamente di essere afflitto da un pericoloso tripolarismo.
Come si fa a nominare la vincitrice?
Andavano tutte e tre a balla di schioppo, se si discute di 3 km/h sulla punta massima o di qualche centesimo in accelerazione la situazione si è ridotta a questione di lana caprina.
O di tifo.
A condire le gesta di queste moto da corsa omologate c’erano storie di epiche sverniciate alla nemica di turno narrate al bar (raccontate fra ipotetiche avventure sessuali ancora meno credibili) o prove di complotti messi in piedi da quella rivista per favorire la rivale nel banco a rulli.
Tre stili diversi – tutti da urlo – e tre interpretazioni dello stesso pensiero filosofico.
Per il sacro rispetto che nutro verso di loro devo elencarle in rigoroso elenco alfabetico.
L’Aprilia, con l’AF1 e la successiva RS, è sempre stata la più raffinata, la più ricercata, sfruttando abilmente il palmarès sportivo della Casa veneta (con le GP dell’Aprilia hanno vinto tutti: sia i fenomeni sia piloti normali).
Quelli del marketing di Noale meriterebbero una laurea motoris causa per come riuscivano a creare un’atmosfera modaiolracing e ad infondere un senso di appartenenza nei confronti della marca.
Livree che (ri)uscivano solo a loro, cura del particolare, tecnica mirata alla prestazione: il forcellone a banana dell’Rs è un’opera d’arte.
La Cagiva Mito aveva il nome nel proprio destino e quella marcia in più rispetto alle concorrenti forse aveva un significato simbolico oltre ché tecnico.
E la Casa di Varese in quegli anni correva nella 500, do you know?
Pur compattissima, ammirandola c’era come la sensazione di avere a che fare con una moto di cilindrata superiore: colpa di quel geniaccio di Tamburini.
La Gilera, col trittico SP-Crono-GFR, era nell’immagine, nella sostanza e nel modo di comunicare tutte e due le cose un mix di essenzialità ed avanguardia.
Ai fronzoli rispondeva coi fatti ed emanava un fascino tutto suo, perché ogni bullone era funzionale alla sportività pura ma anche l’iconografia ringraziava questa assenza di compromessi.
Ogni volta che riguardo il doppio tappo del serbatoio ho la reazione pavloviana di mimare un’accelerata col polso destro (beh anche il rumore con la bocca, certo).
La summa delle 125 stradali per me sono queste tre italiane.
Non le adoro perché sono moto italiane, le adoro perché sono fantastiche moto italiane.
In quegli anni il know-how di casa nostra aveva raggiunto dei livelli sublimi e ad ogni stagione si superava un picco ritenuto l’acme assoluto solo l’anno prima.
Affari e guadagni, certo, il mercato allora tirava lì (farà presto a virare altrove) ma anche passione perché non dimentichiamo che a tutti gli effetti erano moto per i sedicenni neo-patentati.
Moderne e sofisticate tanto alla presentazione quanto ai giorni nostri, si stanno ancora divertendo a minare le certezze spazio temporali.
Lo so, qualcuno di voi preparato sull’argomento potrebbe far notare che c’è un’esclusa di lusso.
Verissimo, si chiama NSR e scusate se è poco.
Ma sarà che io a parte i capolavori (l’RC 30, la prima CBR 900) non ho mai sbavato dietro le Honda stradali (al contrario dell’off road), sarà perché andava meno del tris d’assi di casa nostra, sarà perché fra i suoi pregi c’era l’estrema affidabilità giapponese e non qualcosa di più sanguigno (niente contro le moto jap, ma a parlare di razionalità con quelle 125 si rischia di mettere in discussione la legge Basaglia), insomma, una delle pietre miliari della categoria io non riesco ad apprezzarla appieno.
Ho provato a farmela piacere ma al massimo sono arrivato alla stima, forse a qualcosina in più, ma la scintilla deve essere spontanea e con lei non è scattata.
Non scalfisce il podio (anche se arriva a vederlo da vicina), ma la TZR-R della Yamaha aveva le carte in regola per essere insignita dell’epiteto di “ignorante due tempi”, se non altro per una cosuccia chiamata Deltabox (sempre sia lodato) e per le colorazioni Marlboro che per me rimangono il più bel vestito per una sportiva.
E poi la baby di Iwata quando c’era da andare si toglieva dai coglioni molto rapidamente.
Avere un autentico purosangue e volerne declinare una versione di cilindrata inferiore non equivale ad un successo garantito.
Del syllogismus interruptus se ne accorsero alla Suzuki.
Va bene che i copia-incolla erano agli albori ma tanto era mitica l’RGV Gamma 250, quanto si dimostrò un brutto anatroccolo la sorellina ottavo di litro che ha lasciato nella categoria gli stessi rimpianti di Kluivert al Milan.

Di primo acchito se devo collegare la parola instant classic alle due ruote penso a queste 125 sportive.
Credo che si rivaluteranno (anche se le previsioni sulle storiche hanno la stessa valenza del pendolino di Maurizio Mosca), ma possederle prima di tutto significa avere dei mezzi che hanno segnato un’epoca.
Irripetibili, sia i mezzi, sia l’epoca.
E devo dire che pur essendo tutte sotto lo stesso tetto, le tre regine della categoria non hanno ancora questionato e non si sono graffiate le carene.
Ma forse solo perché i motori sono spenti.

Vengo dopo il GP

13 Nov

Era partito come un semplice post su Facebook, considerata la lunghezza però la sua dimora naturale è qui sul blog.
Si parla del Motomondiale, di Rossi, di Lorenzo e di Marquez, senza la pretesa manichea di trovare colpevoli od innocenti (anche perché non esistono).
E’ solo un analisi ad ampio raggio con l’obiettivo di far riflettere e discutere.

– Non sono mai stato un tifoso di Valentino Rossi, anzi, da sempre mi sta pessantemente sui palle (cit.).Questione puramente epidermica, di atteggiamenti e di fisiognomica.Ciò non toglie che lo reputi uno dei migliori piloti della storia del motociclismo col coraggio di passare da una super Honda (di allora) alla modesta Yamaha (di allora) e con la forza di restare da quasi vent’anni sulla breccia.E col merito di aver regalato emozioni in purezza;
– Classe infinita, talento purissimo e carisma istrionico.Anche troppo.Mi spiego meglio: parecchi dei suoi tifosi non sono appassionati di moto e tifosi di Valentino, sono tifosi di Valentino e basta.Quando lui si ritirerà loro saluteranno il motociclismo e passeranno ad un altro sport o ad un’altra moda del momento. Non conoscono la differenza fra un due ed un quattro tempi, fra un telaio a doppio trave ed uno in traliccio, omettono il significato di “sfrizionare” e non sanno cosa sia la schiena di un motore.Perchè non ce l’hanno mai avuta una moto e questo giocoforza abbassa il livello del dibattito e si entra in una dimensione puramente fideista (i capi ultrà è noto che di calcio capiscano poco);
– Rossi è un finto simpatico già quando vince, le volte poi che non ci è riuscito si è lamentato come un pilota qualsiasi: le gomme Bridgestone che non aveva od il motore della Ducati che sembrava un 1.000 cc.Gnolatine iniziate guarda caso quando a ronzargli intorno sono stati piloti agguerriti e più giovani di lui (Stoner, Lorenzo e Marquez) che a turno sono diventati il Rossi di Rossi, oltre a batterlo frequentemente (2007,2010,2011,2012,2013,2014,2015).Se volete togliete il 2011 ed il 2012 per manifesta inferiorità tecnica;
– Il Dottore non è una vittima, non può esserlo un cannibale che ha vinto 9 titoli Mondiali.Rossi quel sistema lo conosce bene e ci sguazza da una vita.Lo “sportivo” Rossi è quello che fatto erigere un amichevolissimo muro nei box della Yamaha quando è arrivato un giovane Lorenzo, intuendo le sue qualità e per paura che gli rubasse i dati dell’assetto.Ma lo fatto con simpatia, sia chiaro.E con altrettanta simpatia la Yamaha due anni dopo dinanzi al suo diktat “O me o Lorenzo” gli ha detto “Lorenzo”, facendolo emigrare nella scuderia a lui più lontana (ma unica libera):la Ducati.E è tornato alla casa dei tre diapason (qualcuno sussurra su intercessione della Dorna) da seconda guida;
– Rossi è caduto in un tipico comportamento dei fuoriclasse a fine carriera, ovvero la fatica ad accettare che qualcuno vada più forte di lui, che sia altrettanto cattivo nei sorpassi e nei corpo a corpo o che lo affronti senza il timore della lesa maestà;
– Valentino ed il suo entourage hanno scientemente creato un cortocircuito grazie ai mass media e ai supporter alimentato dal “Io ho vinto più di tutti” e dal “Il popolo è con me” tale per cui ogni cosa ha due pesi e due misure.Se Rossi fa un sorpasso al limite è speeettacoloooo, se lo fanno gli altri son criminali.Marquez non doveva ostacolare Rossi a Sepang (ci torniamo dopo) ma doveva attaccare Lorenzo a Jerez (veramente lo ha fatto, a Philip Island, ed ha anche vinto);
– Rossi, oltre che sulla manopola del gas e sulla leva di destra del manubrio, ha fondato la propria strepitosa carriera su guerre psicologiche, battutine taglienti, scenette goliardiche e sorpassi al limite (il motociclismo non è uno sport per signorine, non ci si lamenta, la si ridà indietro), logico inimicarsi dei piloti che quando possono non ti aspettano certo per offrirti uno spritz e per lucidarti le razze dei cerchioni.Beghe tra centauri che solo le suorine fingono di non vedere, roba che normalmente quando uno cammina di più risolve con un sorpasso (ed al limite con due sgrugnoni al box). Rossi quest’anno non sempre era in grado di farlo (il sorpasso, intendo).Non so quale legge della fisica dica che se uno vuole rallentarmi ed ostacolarmi ma io sono più rapido è facile che lui si attacchi al cazzo;
– I piloti sono persone un po’ sopra le righe con la tara genetica della competitività.Ayrton Senna covò la sua “rivincita” per un torto (vero) subito vendicandosi dopo un anno esatto sulla stessa pista, commentando laconico “Le corse sono fatte così, a volte finiscono subito dopo il via, a volte a 6 giri dalla fine”.Ed ho volutamente citato il più grande di tutti.L’acredine che nasce fra i cordoli si sfoga in tanti modalità, con le ripicche più svariate;
– Giacomo Agostini (e non quelli al sabato vanno al Monte o Uccio Reggiani) ha dichiarato che a Sepang Rossi non doveva accettare la sfida di Marquez se sapeva si essere più lento.Capitò anche a lui con Read che faceva il furbino (eufemismo), in due giri lo sverniciò.Il Rossi di 10 anni fa delle combine vere o presunte se ne sarebbe altamente fottuto, oggi si attacca a quelle (in tutti i sensi).La sportellata a Marquez è figlia dell’impossibilità di distanziarlo.La chiave di questa vicenda è tutta lì;
– Non mi venite a dire che avete scoperto due settimane fa che l’ambiente della MotoGP non è formato da gigli di campo e che gli affari vengono prima di tutto.Far girare un GP di sera non verrebbe in mente neanche ad uno con la residenza in un OPG.La MotoGP si sta formulaunizzando.Ma è da un po’;
– Il campione pesarese, dopo tante strategie vincenti, è caduto nella sua stessa trappola.Quella della guerra di nervi, dell’esasperazione.Del creare un ambiente ostile.L’ha menata all’inverosimile con la storia del patto fra i due spagnoli, ma stavolta ha scelto le persona sbagliate (Marquez e Lorenzo) nel momento sbagliato.Anzichè demolirli come al solito, li ha caricati: Marquez a dimostrargli da vicino (molto vicino) di che pasta fosse fatto e Lorenzo a recuperare i punti di svantaggio per una rimonta Mondiale.Questa vicenda l’ha sovralimentata lui.Se il Rossi di 15 anni fa avesse sentito il Rossi complottista delle ultime due settimane gli avrebbe perlomeno dedicato una delle sue proverbiali gag;
– Quest’anno Marc Marquez si è perso per problemi di concentrazione (si spiega così la compilation di cadute) e per quella voglia atavica della Honda di mettere il becco sulla moto molto più dei piloti (che però la devono guidare, persero Rossi anche per questo).Rimane un ventiduenne irriverente che guida al limite anche in parcheggio (si rispiega così la compilation di cadute) e che in maniera sfrontata ti mette la moto di traverso davanti al naso.Lo faceva nei primi Duemila anche un certo Valentino Rossi.L’ha giurata al pilota di Tavullia?Può essere benissimo, a parti inverse forse anche Rossi avrebbe fatto fatica ad ingoiare gli epiloghi dell’Argentina o di Assen, corroborati dalle accuse di accordi sottotraccia.E quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare ed i più rapidi stanno davanti;
– Dobbiamo smetterla di credere che il nostro beniamino sia un Angelo del Bene esente da colpe e peccati e l’avversario di turno un Mefisto a cui attribuire tutte le disgrazie del Mondo fra cui il buco dell’ozono, le canzoni di Jovanotti e l’utilizzo del “Tanta roba”;
– Jorge Lorenzo ha fatto una gran stagione, rialzandosi da qualche cazzata con la silenziosa cattiveria di quelli col manico per dimostrare che il più veloce quest’anno è stato lui (ne ha vinte 7, Rossi 3).E salvo rari casi, o a meno che Renzi non cambi anche queste regole, il più veloce vince.Gli darò la lode quando tornerà il Porfuera che superava all’esterno col rischio di cadere e smetterà di essere un po’ troppo ragioniere (purtroppo credo mai);
-Il majorchino merita il titolo anche perché nel 2013 fece la sua più bella stagione (ad Assen quasi totalmente demolito s’inventò un quinto posto epico) battuto per una manciata di punti dal rookie Marquez e quest’anno ha zittito tutti quelli che lo davano capace solo di leccare i Chupa Chups o di indossare gli occhiali da sole;
– Rossi ha strameritato tutti i suoi Mondiali, vinti e dominati.Quest’anno stava comandando il Campionato di testa, di esperienza, da situazionista ma non certo da quello più rapido della combriccola.Ha tirato fuori due zampate (Assen e Silverstone) quando sembrava che Lorenzo stesse per mettere la freccia e spiccare il volo, ma ha sempre sofferto il compagno di squadra.In qualifica, in gara e credo anche in vasca in scooter nel paddock.Devo ammettere che non credevo di rivederlo così a 36 anni, ma il “così” non è bastato e Rossi lo sa benissimo per primo;
– Sono storiche le affermazioni di Rossi a Stoner e Gibernau dopo un corpo a corpo poco ortodosso (mai criticato per quello) “Non te la prendere, le corse sono fatte così” o un commento di un dopo-gara che spiegava un comportamento discutibile di Biaggi con “…evidentemente gli tira il culo finire dietro tutte le domeniche”.
– Ora è il suo turno.