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Quella volta che…

28 Mar

Dopo la tua morte per cercare di raccogliere i miei pezzi sfracellati e sparpagliati in terra, provare a dargli un verso e darlo quindi anche a me, sì insomma, per cercare di salvarmi un pò, in aggiunta ad auto-terapie e soluzioni sane che si alternavano ad altre decisamente alcoliche, mi venne l’idea di scrivere una serie di ricordi, degli aneddoti sui tanti momenti vissuti insieme.
Ce n’erano proprio tanti che mi rimpallavano in testa ed ognuno era una fiammata che subito mi aumentava lo strazio, perché mi ribadiva quello che avevo perso, ma mi accorgevo di averne fortemente bisogno, perché era il modo di renderli eterni.
Presi un quadernone, uno dei tanti avanzi della scuola che giravano ancora per casa (e che per fortuna girano ancora): era verde chiaro, l’avevo scelto a caso, forse a righe c’era solo quello, ma è sintomatico che il colore fosse quello della speranza che si contrapponeva al nero del mio umore.
Il nero è un colore di merda.
Sempre.
Scrissi il titolo, Quella volta che…, in corsivo, ovviamente con una biro blu – quando scrivo senza fretta ho anche una bella calligrafia – ed iniziai a vergare una serie di episodi (ilari, profondi, totali) anche e soprattutto per paura di scordarmeli, in quei momenti allo sconforto si aggiungono pure dei potenziali sensi di colpa.
Scorrevano, gli aneddoti e la biro, fluidi, naturali, alcuni recenti, altri di parecchi calzoni indietro, l’ordine era scandito da cosa tiravo fuori, o forse da cosa suggerivi tu.
Ad ogni riga mi rallegravo: per averli vissuti, quei momenti, e per averti conosciuto.
Scrivevo e rileggevo, era bello rileggerli, che cazzo dico, era tutto rileggerli, specie quando il numero iniziava ad essere corposo.
Quel quaderno non so che fine abbia fatto, non è incuranza, forse ho meno bisogno di lui e alla fine quei ricordi non sono svaniti.
Adesso potrei rimettermi a cercarlo.

In quei momenti ci si fanno tante domande, sul credere, soprattutto sul non credere, e si tirano tante bestemmie.
Io credo alle persone ed al legame eterno che può scaturire.
E so che ci rivedremo, alla faccia del mio (pur spirituale) ateismo.
Tu andavi oltre, insieme andavamo oltre, il nostro legame andava oltre, Diocristo, 21 anni sono troppo pochi per morire e troppo pochi anche per perdere un amico.
E a noi era successo anche tre anni prima.
Tutte le volte che sentivo quelle cazzate sugli angeli chiamati da lassù e sui migliori che se ne vanno, al dolore si aggiungeva un’ulteriore incazzatura.
Certo che sei speciale – mi piace parlare di te al presente – ma proprio perché sei una persona speciale è qui il tuo posto, è qui che uno come te dovrebbe stare.
Porca troia se mi manchi, mi mancherai per sempre, ma io sento fissa la tua presenza, come quando in macchina ci voltavamo simultaneamente e ci guardavamo in faccia – sono andato avanti un tot a girarmi di scatto sicuro di trovarti lì.
Lì non ci sei più stato, ma io so che ci sei lo stesso, così a tutte Quelle volte che… si sono aggiunte altre Quelle volte che…

E’ stata pesa scrivere queste parole, ma te lo dovevo.
E lo dovevo anche a me.

La Pietra filosofale

19 Feb

Quando si è piccoli il Mondo arriva in maniera differente.
Che sia lui a volersi presentare in modo insolito ai nuovi inquilini?
O sono i bambini a munirsi di un filtro diverso per ognuna di quelle scoperte che gli fioccano davanti?
E per un bambino tutto (o quasi) è una scoperta.
Se non ci facciamo inghiottire dal tunnel della razionalità possiamo anche ipotizzare che magari è proprio la percezione adulta ad essere artefatta o limitata, e solo da bimbi se ne può assaporare l’essenza autentica.
Un’auto, un bosco, un quartiere, un quadro, una cantina, possono assumere, nelle giovani ed indefesse menti, dimensioni gigantesche, sedimentandosi nel pensiero fino a diventare un paradigma e solo parecchi anni (ed esperienze) dopo ci si ravvede, senza comunque riuscire a togliere quell’alone di stupore per quanto sia durata la congettura.
Quando si è alti così non solo le dimensioni si divertono a mutare, anche la percezione è deformata e come una secchiata di vernice gettata su una tela può prendere qualsiasi direzione, muta perciò il senso stesso di ciò che si osserva, o che si immagina – una distinzione, quest’ultima, che un bambino seppellirebbe fra un’alzata di spalle ed una sardonica risata.
La logica direbbe che tutto questo accade per un naturale rapporto dimensionale, il buonsenso invece per autodifesa.
Ma la logica ed il buonsenso non sempre spiegano tutto.
Perché in quella fiaba continua che è l’essere bambini la fantasia è in perenne flagranza di reato e pur avendo commesso il fatto è sempre scagionata godendo di una meritata e perenne immunità.
I bambini scorgono animali dalla materia, stanano mostri che non esistono (ma siete poi così sicuri che non esistano?), patiscono luoghi severi, percepiscono timide situazioni, scorgono ombre minacciose, costruiscono da un sassolino, disegnano percorsi profondissimi e forme di Mondi casualmente programmati, intuiscono (anche più frequentemente degli adulti) e leggono le situazioni (anche più lucidamente degli adulti).
Se chiedessimo ad un fanciullo cos’è una figura allegorica il boh sarebbe garantito, ma lui, senza saperlo, ne ha già fatto conoscenza.

Ricordo che a me da bambino inquietava tantissimo una pubblicità (figuriamoci gli horror…), stranamente la mia proverbiale memoria sta facendo scena muta sul prodotto che ci volevano somministrare, ad ogni modo nello spot si vedeva (dall’alto) una città correre ad un ritmo forsennato che finiva per avvilupparsi su se stessa e più che un agglomerato di persone, strade e case assomigliava alla sezione di un circuito elettrico dove l’unica cosa visibile era un fascio di luce.
Tutti i giorni mi ripromettevo di sfidarla, ma in cuor mio speravo che nel blocco-réclame della neonata tv commerciale non apparisse proprio (sotto sotto puntavo ad una vittoria in contumacia), ma lei rispuntava, puntuale e carognosa, al solito orario – evidentemente non mi erano ancora chiare le regole sulle concessioni degli spazi pubblicitari.
Se ci penso oggi mi viene da sorridere, se ci penso una seconda volta continuo a sorridere ma aggiungo che qualcosa di quei mondi è arrivato fino a ad oggi, ed ha tutta l’aria di volerci restare; e credo che valga per ognuno di noi.
Quel vortice che nella mia testa annullava le persone, assomigliava parecchio al prodromo del folle progresso senza sviluppo e della crescita ipertrofica che guardano al Pil, esaltano la tecnologia e calpestano persone e ambiente.
Il mio timore, seppur ingigantito dai neanche dieci anni, non era poi così infondato ed inglobava il rigetto a quella moritura concezione, che difatti porto dentro saldamente.
Invece, fra i viaggi mentali personalizzati a bordo della trasformazione, una delle mie mete preferite era in una parete.
C’era una specie di incavo orizzontale ben visibile e complici le venature verticali che lo circondavano, io ci vedevo una faccia con un naso dantesco e una grande bocca, grande e particolare, e mica finiva lì perché, questo incavo aveva una bella fessura che era poi il posto dove infilare la mano per ottenere chissà quali risposte, per farsi predire un anticipo del futuro o solo per inventarsi un gioco da alternare alle macchinine e al pallone.
Questa bocca – perché poi alla fine il fulcro di tutto era nella bocca – indossava un’ aria fiera, austera, incuriosiva con circospezione ma non mi avrebbe mai fatto del male, non sapevo bene il motivo ma ne ero certo.
Le famose certezze dei bambini.
Visto che queste storie erano come i Lego – potevi aggiungere e togliere quello che ti pareva e loro rimanevano sempre in piedi ed avevano comunque un perché – durante una vacanze di Natale guardando il trailer de La storia infinita mi fissai in testa l’idea che il muso del cavallo fosse la bocca della parete.
O che il muso del cavallo fosse nella parete.
Interscambiabili appunto, come i Lego, con l’aggiunta di un Neverending story che partiva in automatico.
La parete di cui sto parlando non era quella di casa mia, neanche quella del mio vicino e nemmeno di qualsiasi altro edificio del Peep o dei dintorni.
Quella era una parete della Pietra di Bismantova.

Sono cresciuto sotto la sua egida, da un angolo dove non sembrava neanche lei e che ti invogliava a cercare quelli più attraenti – la Pietra sovverte le regole sulla geometria perché di angoli da cui poterla ammirare
ne ha infiniti.
Alzavo la testa e la vedevo, lassù, così imponente, dominante, misteriosa ed infinita, sembrava un Dio pagano, sicuramente più desiderabile e raggiungibile di quello che ci propinavano a catechismo.
Ovvio che tutto muti, se nel frattempo è mutata anche la Pietra: il sentiero si è infoltito di vegetazione che ora la ricopre come una saggia barba, le facciate hanno la pelle più screpolata (non parlate di rughe se no s’incazza) e perfino quella bocca ha cambiato espressione col passare del tempo.
Chissà se il suo od il mio.
Vederla quotidianamente non garantisce di sapere tutto di lei, diciamo che la Pietra ricorda quelle persone che conosci da una vita eppure riescono sempre a stimolarti lasciandoti un nuovo stupore ad ogni incontro.
E poi lei non è gelosa dei propri segreti, non ne cela alcuno, premia solo i solerti che sfidano la pigrizia e ricercano un angolo, una visuale, uno sfondo, un anfratto che possa far esclamare “Da qui non l’avevo mai vista!”.
Se hai iniziato a guardarla col morgaglio al naso (è il moccolo) sei stato catturato, così la Pietra è in ognuno di noi, il legame è consustanziale, quando perde qualche pezzo sentiamo staccarci qualcosa pure noi, la sua forza sta qui, non è solo ambiente – e già basterebbe per venerarla due volte al giorno – è qualcosa che si è calato in ciascuno di noi, l’abbiamo respirata, immagazzinata, fantasticata, ce l’abbiamo dentro da prima di nascere ed è per questo richiamo materno, atavico, magmatico, che vogliamo coccolarla e gustarcela da varie angolazioni, lei così diversa nella sua unicità, monolite mutante al variare di un metro, montagna con la somma pianeggiante, roccia coperta di verde, cima che punta allo zenith, sembra opera dell’ala più creativa del Big Bang o della matita particolarmente psichedelica di un fumettista.
La Pietra è una nave per solcare l’Appennino, una vetta per scorgerne altre, un baluardo all’identità, un antidoto allo sradicamento, è l’esplorazione nella staticità.
Sasso, ma anche stella polare grazie alla quale ci orientiamo, se siamo in un posto nuovo una sbirciata per cercarla è automatica, è un punto di partenza che si cerca anche nell’arrivo ed in cui si desidera tornare.
La Preda (in dialetto la chiamiamo così) è icona e allo stesso tempo (una) ragione del legame con l’Appennino, Luca nei viaggi di ritorno da Bologna affermava di sentirsi arrivato a casa quando iniziava a scorgerla – uno dei tanti punti di contatto della nostra fraternità.

Temo che la scena della pubblicità, alla Pietra, si presenti sempre più frequentemente davanti, e purtroppo, non su uno schermo in prima serata, ma dal vivo.
Più quelle città corrono inutilmente veloci e più lei risponde con la silenziosa forza millenaria che ha visto passare nel fiume, uno dopo l’altro, cadaveri, tutti i carnefici delle umane follie.
Nell’era della società iper-connessa ma scollegata dalle persone, quando le certezze vacillano e l’insicurezza le sostituisce, se ti volti spaesato lei, aspra e accogliente, ti sussurra “Stai tranquillo, sei al sicuro…Come non ci credi?Guarda, mi vedi, sono qui!”.
A chi ne ignora l’esistenza, racconti di lei con l’orgoglio di chi parla di una propria creatura, qualcuno inizialmente non comprende questa interazione, ma appena gli sguardi s’incrociano percepisce istantaneamente l’incantesimo, e l’abbozzo di sminuire la magnificazione termina in un rispetto per qualcosa che sconfinando nel sacro, sa di apodittico.
Non sono per niente convinto che alla bellezza ci si assuefaccia e che la sua quotidianità procuri indifferenza, perlomeno credo che non riguardi la sfera della Pietra di Bismantova, dove la voglia ed il bisogno di viverla e stupirsi surclassa l’abitudinarietà.
Ed anche perché l’onda lunga della sua emanazione concupisce come il primo giorno: durante la ricerca di quella che sarebbe poi diventata la nostra casa, un giorno mi uscì uno spontaneo “Io devo vedere la Pietra”, commento puro di uno stato d’animo che traspariva più dipendenza e passione che debolezza, mentre quando è stata l’ora di scegliere l’icona di questo blog – la casa è di tutta la famiglia, il blog è una stanzetta tutta mia – mi è venuto fisiologico come respirare sceglierla in una posa accattivante.
E dopo tanti anni qualcosa dedicato a lei era giunta l’ora di scriverlo.

E’ tardi, ma appena avrò terminato la pubblicazione di questo articolo, uscirò dalla pagina del blog e scriverò Pietra di Bismantova nel motore di ricerca, poi un clic su Immagini.
Per andare a letto sereno.

La prova di traduzione

21 Nov

Università della Strada
Facoltà del Libero Pensiero
Sessione d’esame Dissidenza Attiva 1

“Avanti il prossimo”
“Buongiorno”
“Buongiorno a lei, prima di passare alla prova mi permetta un doveroso cappello introduttivo visto che sostenere questo esame è un primo traguardo per raggiungere altre mete: avrà notato – e vedo con piacere che è in pari con gli esami – che in questa facoltà non vogliamo formare degli specialisti ma degli eclettici, che cerchiamo di instillare il seme della diffidenza alla versione ufficiale e soprattutto che miriamo ad emancipare le persone da dogmi, precetti, tifo e restrizioni che ne limitino l’onestà intellettuale”
“Certamente, l’ho scelta proprio per questo”
“Mi compiaccio; bene, il test di oggi verte sulla lingua inglese, sull’egemonia culturale e financo sulla sociologia di massa: mi deve tradurre la locuzione Black Friday
“CAGATA PAZZESCA”
“Complimenti, lei ha superato l’esame con il massimo dei voti”
“Grazie”
“Hanno proprio rotto i coglioni, eh?”

Questione di stima

21 Mag

Roma; ultima zingarata; sabato sera.
Ci dirigiamo verso Trastevere, zona turistica per antonomasia, eppure per trovare il nostro ristorante il navigatore ha chiesto l’aiuto del pubblico ed ha pure comprato una vocale.
Sia detto senza perifrasi: fanno cagare ‘sti navigatori.
A chiedere invece non si sbaglia mai.
Eccolo finalmente: sì, è di quelli che piace a noi, un pò spoglio per i canoni attuali, asciutto, di fronzoli neanche l’ombra, con quell’arredo popolare che all’Ikea non si sono mai filati ma che il cinema ha immortalato in una pletora di scene in trattoria con l’acqua Pejo; poi il pavimento, bisogna sempre guardare il pavimento, il pavimento dice tanto, questo pavimento potrebbe racchiudere una buona fetta di storia repubblicana.
Minimo lo avranno silenziato, o stuccato a forza di omissis
Questi tuffi carpiati indietro di decenni sono fra gli antidoti che mi devo iniettare per sopportare meglio l’appiattimento tecnologico del nostro tempo.
Menu senza supercazzole, cameriere con facce autentiche, personale senza la sindrome da MasterChef: per un fisionomista maniacale come me praticamente l’Eden (o l’Edel, per restare in tema di luoghi d’antan).
Voi cosa prendete?Che vino ci facciamo portare?Chi vuole assaggiare?Te ne prendo una forchettata…Di questo il bis!
A Roma si parla di Roma: troppa l’energia sprigionata, strabordante la storia che zampilla da ogni anfratto, suadente tutto, anche escludendo i capolavori.
Un pensiero poi al grande assente, scontato rifare nella Capitale la prossima zingarata – ci teneva tanto a vederla! – meno l’idea di farle d’ora in poi sempre nella Capitale.

Credo sia un dono naturale di ognuno di noi, corroborato poi dall’osmosi dello stare insieme.
Mi riferisco alla capacità di spaziare, collegare, scovare, unire e discernere i più svariati argomenti e pensieri sottostanti.
A volte penso che queste analisi – del tutto istintive – siano anche il risultato della nostra relazione, a volte esattamente l’inverso.
Capita che le speculazioni siano solo un pretesto, come siano pura necessità, come entrambe le cose assieme.
Solo che questi nostri confronti non sempre sono caratterizzati da soffici afflati o delicati sussurri e non sono idratati all’acqua di rosa.
A Bologna due ragazzi sono rimasti seriamente impressionati (al più giovane per diversi mesi non sono più cresciuti i brufoli), a Torino un gruppo di tifosi ha capito che ci può essere alta tensione anche fuori della curva.
E non c’entra la latitudine.
Trastullati dalla romanità, fra le chiacchiere esce un argomento che si presta, ognuno dice la sua, si creano linee di pensiero che intersecandosi arruolano e licenziano noi quattro, c’è voglia di esprimere, convincere e provocare, i decibel crescono proporzionalmente all’enfasi prodigata, i carciofi alla romana con deferenza si sono zittiti e rimpiccioliti, qualcuno sente più il confronto di altri e lo sentono anche agli altri tavoli, che difatti riscopriamo quasi vuoti.
Avevano comunque finito, confidiamo col solito pentimento post-urla, ma non pienamente sincero, ancora troppo recente il gusto (amarognolo) del dibattito.
No, tutto a posto, anche stavolta nessuna strigliata dal ristoratore, evidentemente o restiamo nella norma o più realisticamente la superiamo ma con simpatia.
O sarà l’accento emiliano.
E se la cuoca si avvicina per prendersi i meritati complimenti significa che anche nei battibecchi infondiamo convivialità.

Perché appena usciti dal ristorante abbiamo il sorriso sulle labbra?
Perché scherziamo, ci abbracciamo e ringraziamo per averci fatto reciprocamente ingrossare la giugulare?
Perché ci sbrighiamo a riempire le vie del centro con altre considerazioni, richieste, consigli, proposte?
Perché con altri conoscenti una discussione aspra come quella appena conclusa, o non sarebbe mai nata, o avrebbe lasciato pensieri grondanti di livore per almeno 48 ore o avrebbe segnato indelebilmente i rapporti?
Per una questione di stima.
La stima, quella che ti permette di perdonare un commento sopra le righe (per uno subìto ce n’è uno fatto).
Quella che a distanza di giorni ti fa riflettere su quanto detto ed ascoltato.
Quella che prima ti ha visto combattere verbalmente, poi cercare insegnamento proprio da quelle parole e da quei concetti ostili.
Quella che ti garantisce di poter esprimere liberamente quello che pensi.
Quella che anche in disaccordo, non ti fa scalfire la considerazione del dirimpettaio.
Quella che anche in una cazzata altrui sai di non trovare tracce di sofismi.
Quella che ti spinge a voler correggere un paralogismo altrui.
Quella che ti fa vedere in modo diverso le critiche ricevute.
Quella che ti suggerisce che spesso abbiamo un’identica meta, affrontata solo con qualche personale deviazione sul tragitto standard.
Quella che le tue deviazioni possono sembrare inutili esattamente come quelle degli altri.
Quella che ti ammonisce che anche il tuo atteggiamento può infastidire.
Quella che dà una sgrassata al manicheismo che si deposita in ognuno di noi.
Quella che in un’intesa non ti richiede la sintonia totale.
Quella che ti ricorda che senza questi confronti tutti e cinque saremmo un pò meno di quel che siamo.
Nessuna saga dei buoni sentimenti, nessuna smelassa retorica: la stima va meritata, la stima costa, la stima esige, la stima non va giustificata, la stima ripaga.
La stima è selettiva, è parsimoniosa, la stima non va sprecata, va difesa.
La stima è spontanea, non necessariamente immediata, quasi sempre reciproca.
La stima è dare il giusto risalto ai propri sentimenti, la stima è egoismo ed altruismo, è rispetto di sè e degli altri, è salvezza ed umanità.
La cerchia di persone stimate non è un numero chiuso, aumentarla e diminuirla dev’essere una conseguenza, non un obiettivo.
La stima è quel bisogno atavico dell’uomo di dare e ricevere calore, può contemplare l’amore, l’amicizia o rimanere neutra.
La stima: cinque lettere per una parola che aiuta a sorreggere la vita.

Liberazione d’inverno

28 Mar

E così per smascherare alcuni dei sudici e sozzi effetti del turbo-capitalismo bastava il candore e la purezza della neve…
Stavolta la neve – antica come solo un fenomeno atmosferico può essere – prima di coprire dolcemente ed indistintamente ogni cosa le si proponesse davanti, è andata a scovare i moderni archetipi della società occidentale per poi sbrandarli con il cinismo, la cattiveria e l’insofferenza di un najone prossimo al congedo.
E’ stata insignita di questo compito, la neve, tutt’altro che casualmente: un tempo attesa, oggi vituperata, ha covato tristezza, delusione e risentimento, sentimenti che macerando conducono alla rabbia e ad un sano desiderio di rivalsa.

Nell’Appennino la neve è sempre stata la cornice, scomoda se vogliamo (ma più agli occhi di un esterno – e comunque una volta ben più di oggi), ingombrante, eppure amata.
Amata perché insostituibile, amata perché consustanziale: provate a chiedere ad un marinaio un parere sul mare.
D’inverno, se lei era presente, le bacchette da direttore d’orchestra erano sue, d’emblée.
Ed anche l’Oscar come migliore attrice protagonista.
In città non aveva la residenza, è vero, ma il suo sporadico arrivo era un alibi di ferro per rompere la routine, poter cazzeggiare e vivere uno di quei momenti che una volta raccontato avrebbe spalancato bocche, irraggiato visi ed illuminato l’immaginazione dei dirimpettai.
Invece questo sistema economico (scusate, al momento non mi viene un aggettivo sufficientemente insolente, lascio a voi l’onore) ha modificato antropologicamente le persone strappando le radici di ognuno alla propria terra.
I bambini, ontologicamente incontaminati, ancora impermeabili ai dettami del Dio denaro, rabdomanti di avventure il più possibile contigue alla magia, aspettano la neve, per lei si alzano prima (dote taumaturgica): una nevicata vale un’esistenza in attesa di scoprire qualcos’altro che gli faccia battere il cuore altrettanto gustosamente.
Magari un’altra nevicata.
Crescendo purtroppo si abiura quel passato spensierato, l’uomo fa incetta di isterismo e raddoppia le dosi (già da cavallo) che un’entità astratta gli ha prescritto, si lamenta del caldo d’estate, del freddo d’inverno, della pioggia d’autunno, delle viole in primavera.
Più che metereopatico l’uomo moderno è divenuto metereodipendente, con sfumature che lambiscono l’ossessivo-compulsivo: crede più all’ultimo aggiornamento del sito che a quello che gli si presenta davanti agli occhi, sottotraccia spera in qualche calamità per stare un pò in ansia, per dire “Io c’ero!” e per aggiungere qualche foto su Instagram.
Vuole comandare qualsiasi evento (atmosferico e non), governare tutto con una app, è in perenne competizione anche con la propria ombra, si illude di rendere una giornata nevosa produttiva esattamente come tutte le altre perché il mercato deve sempre trionfare (e sempre trionferà!), non accetta che i tempi scanditi dalla redditività vengano dilatati, pretende che la sua tecnologia non abbia mai intoppi e vinca tutte le partite.
E’ l’apologeta di una modernità scordatasi del progresso e dell’umanità.
Al netto di persone che col gelo davvero tribolano e di mestieri votati al sacrificio (qui il rispetto e la solidarietà è d’obbligo), se anche ci fossimo fermati durante le nevicate di questo bellissimo inverno, il Mondo non sarebbe né esploso né avrebbe rischiato di grippare, invece quei maledetti centesimi di Pil pesano come tonnellate perché rischiano di certificare l’infallibilità del capitalismo e la sua ineludibilità.
Impunemente la neve ha sbattuto in faccia alla società tutta la sua fattualità: è molle, liquida, delicagata, inconsistente, destrutturata, fatua e riempita col superfluo, conosce la fatica fisica solo in palestra, la rabbia esclusivamente con un più debole, non sa più sognare, non sa più ridere di se stessa e dell’imprevisto, non sa più fermarsi (solo chi si ferma può ripartire), lavora in nome di una crescita infinita e si sente affranta a rimandare qualcosa a domani, vive in una perenne sindrome di Stoccolma del proprio tempo, si lamenta, ma l’invettiva (sempre che parta) non trova destinatari, e una volta che dall’alto (inteso come atmosfera, of course) si presenta un antidoto, non sa far altro che rimpiangere i ritmi da catena di montaggio che hanno ridotto l’essere umano ad oggetto usa e getta.
Un oggetto che produce altri oggetti, o delle amenità comparabili.
In un epoca così, con uno spartito così – un pò per causa, un pò come effetto – gli intellettuali hanno fatto la fine delle salamandre mentre i loro surrogati imperversano nella spirale dell’appiattimento cosmico diffondendo il verbo 2.0 pregno di improbi dettami: per millenni ci hanno raccontato la fola che il Mondo è stato creato da Dio, questi qua arriveranno a sostenere – utilitaristicamente – che l’unica dottrina a cui inchinarsi è la volontà del capitalismo d’assalto.

Ed invece no, la neve con la sua minimalista ed imponente presenza, col suo silenzioso frastuono, ha confutato le meschine leggi del mercato, ha irriso i deboli crismi dell’incivile modernità, del barbaro progresso, dello sviluppo solo tecnologico.
Attingendo alla sua immanente trascendenza, ha provato a redimerci, infliggendo un’affettuosa umiliazione ai discepoli di questo stile di (non) vita, per riportarli ad una dimensione umana.
Ci ha ricordato che è doveroso rallentare i ritmi, esattamente come ridare dignità al tempo e nondimeno fermare il frenetico contesto per trovare un momento per chiedersi chi siamo.
Intrepida ancorché affettuosa, la neve per titillare le risposte ha messo a disposizione la sua ineffabile atmosfera ovattata e per tutta risposta più che ringraziata è stata stramaledetta: la collettività è riuscita anche qui a dividersi in due fazioni, con fanatismi e linciaggi compresi nel prezzo.
Ma stavolta l’affondo è partito, la neve ha piantato un dito in un occhio – ed un altro nel culo – all’intero Gotha capitaliberista: l’argenteria ha tremato ed è stato tracciato un solco dove prima si intravedeva solo un segnetto di pusillanimi velleità.
I fiocchi, uno dopo l’altro – con la pazienza, la calma e la serenità, doti oramai fagocitate in nome del niente – è come se avessero formato un esercito di liberazione, armati del freddo per svegliare l’umanità dal torpore che la sta conducendo all’assopimento.
Non sappiamo se le nevicate a ripetizione abbiano segnato l’inizio dello sfaldamento del sistema neo-liberista, di sicuro hanno fatto sentire il freddo ad un re un pò più nudo.

Neve, placida ribelle, sovversiva con la naturalezza del tuo essere, rivoluzionaria nel tuo reazionarismo, sei stata uno dei più concreti atti di protesta per abbattere l’autorità costituita(si), tu autentica icona anti-capitalista ed anti-classista, tu, più dirompente in una notte che tanti presunti dissidenti nella loro inutile vita, tu fulgido esempio da seguire senza aver mai pronunciato la parola io.
Grazie neve, un motivo in più per continuare ad amarti.

A tu per tu

17 Feb

Lui è un uomo importante, influente.
Incarna gli stilemi di chi ce l’ha fatta.
Carriera e soldi che si alimentano in un volano dal ritmo esponenziale.
Viaggi che sono il suo tran-tran, dove la meta non è una località ma solo nuove relazioni professionali da abbracciare, mercati da scoprire ed una bandierina in più da infilzare in una ruspante cartina.
Risultati, sfide e stress a cui non riesce più fare a meno.
Ma soprattutto potere.
Potere che da mezzo è diventato fine – e forse lo è sempre stato – potere che è da celebrare ogni volta che viene sguaiato, potere che ha soppiantato tutte le ragioni per cui valga vivere.
E senza dover fare prigionieri.
Vive solo, per scelta, ma ha tante donne, qualcuna manco la conosce per nome ma solo per le misure o per le differenti prestazioni (catalogate) che può offrire, con certe altre prima della chiavata si diverte anche ad uscirci a cena, a bere qualcosa al club o a fare una capatina al mare.
E se invece il nostro vuole compagnia gli basta schioccare le dita senza nemmeno cercare i numeri nella rubrica.
Dicono che gli amici si vedano nel momento del bisogno, beh, quando lui si vuole divertire va in scena un biblico pellegrinaggio di farisei, ma in quel contesto la definizione amico è puramente nominale.
La chiamano personalità, omettendo probabilmente la differenza fra carisma, autorevolezza ed autorità.
Osannato ed invidiato dagli epigoni, nell’epoca misera ed ultra-competitiva che hanno imbastito su, riesce a convertire anche una rinomata fetta dei petulanti detrattori, che più che detrattori sono semplicemente invidiosi.
Concludere affari è la sua missione: vive per il risultato ed il risultato lo tiene vivo.
L’etica e la correttezza per lui sono termini atoni ed a seconda dell’occasione il significato arriva sfogliando il dizionario dell’utilitarismo, la sua rettitudine – concetto di per sé alquanto vago – ricorda invece il movimento impazzito della pallina nel flipper.
Spietato come un virus, mutante come il più didascalico dei camaleonti, dissimula abilmente (anche a se stesso) i propri viaggi a Canossa giacché i compromessi del vicino sono sempre più grandi.
Anzi, gli unici.
Sono quello che faccio, faccio perché sono, è una frase che non ha mai pronunciato ma che segue come un precetto.
Un mantra a sua insaputa.
Affari per il lavoro, si diceva, che si tramutano in affari per se stesso.
La sua vita e la sua professione sono un monolite, le persone che incrocia funzionali a quel monolite.
Ed il monolite ha l’obbligo di raggiungere gli obiettivi – quelli professionali, quelli personali, tutto si mischia – rispettando solo il codice della propria avidità, chi si interpone o ha la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato viene bellamente sfranzato col cinismo di chi nemmeno si volta a guardare i resti sull’asfalto.
Si trova nel suo attico, in centro, nell’ascensore della vita lui ha premuto il tasto di quel piano, perché era il piano che voleva, dunque il piano che gli spettava, dunque il piano che ha conquistato.
C’è chi nasce per vivere in un attico e chi si merita uno scantinato.
Stavolta la frase è sua.
E’ stravaccato sul divano in pelle Frau con indosso una vestaglia di raso intento solo a non scivolare troppo quando abbozza certe posizioni, anche abbandonato all’ozio trasuda un’indomita strafottenza di chi ha la pretesa di prendere per il culo anche il tempo che passa e con una smorfia beffarda nel ghigno, la convinzione di riuscirci.
E’ in compagnia di un sigaro, di quelli importanti, di quelli che pochi son degni.
Non tutti possono guidare certe auto, indossare certi abiti, apprezzare certi vini e, appunto, fumare certi sigari.
Sarebbe una questione di classe, di eleganza, di raffinatezza; ma si riduce ad una questione di comando: se ce l’hai, puoi.
Di solito non ha tempo per momenti così improduttivi, come per riflettere e per innescare quelle introspezioni di cui qualcuno abusa, quelli che pensano spesso, troppo, e difatti non hanno raggiunto le vette che ha raggiunto lui.
Ma quel giorno gli va e poi provare qualcosa di insolito fa parte del suo credo, purché sia lui a stabilire il concetto di insolito.
Ogni manifestazione di dominio necessita della propria dottrina – sono nate apposta d’altronde le dottrine, così curate nei particolari, così subdolamente fallaci per catechizzare e portare a spasso l’uomo al guinzaglio in un cammino tanto controllato quanto oppressivo.
In questa storia è il solipsismo a soddisfare le richieste di un mandante che gioca d’azzardo con le carte truccate e con un orologio al polso avanti di decenni.
Riflessioni dunque, chiamiamole così, o pretesti dall’alibi di ferro per compiacersi (da vanesio qual’è) di come lui abbia messo in scacco nientemeno che il sistema (in pratica il suo superiore) con tutto quell’impastato groviglio di rapporti, influenze, gerarchie, relazioni, in una doppia e trionfale scalata, e tra una rutilante onnipotenza ed un meschino desiderio il protagonista scompare in una nuvola di fumo particolarmente scenografica prodotta dal suo sigaro: che scena perfetta sarebbe per un film!
Ma d’un tratto qualcosa non solo lo fa tossire come un ragazzino delle medie alle prese con la prima Marlboro rossa, ma gli alza anche follemente il battito cardiaco con la stessa infinitesimale distanza che intercorre fra la botta e la fitta di dolore e con la frequenza di quando in auto rischi di finire fuori strada e per un soffio te la cavi.
Pum!Pum!Pum!Pum!Pum!Pum!
Saranno 180 al minuto, sparati senza silenziatore.
Perché di fronte, con un espressione oltremodo severa, ha se stesso.
Non bastasse la presenza – capirete, alquanto inaspettata ed ermetica – pure la fisiognomica gli mette a dura prova le coronarie ed annessi meccanismi.
L’uomo d’affari ora è intriso di quella tipica paura di chi, pur non sapendo il motivo di quell’intransigenza, si sente in colpa, qualcosa deve aver combinato, e il fatto di non sapere cosa, lo agita ancora di più.
Preoccupato, nonostante chi ha di fronte sia in silenzio.
Preoccupato, soprattutto perché chi ha di fronte continua a rimanere in silenzio.
Un silenzio sentenziatore, che emana più echi e più strali di tante parole.
L’uomo che ha di fronte – atteggiamenti di un perfetto estraneo con le sembianze di se stesso – sembra voler ritardare volutamente le parole affidandosi ad uno sguardo tutt’altro che indulgente ed il protrarsi di quella mimica è una lama seghettata che scarna le interiora del nostro uomo di successo, che non distingue se sia più straziante l’affondo od il ritorno.
Questa attesa è angosciante, ma teme che sarà peggio il dopo.
Sempre se ci sarà.
Non provava questa sensazione da una vita fa, quando ancora l’apogeo non lo aveva reso refrattario alle emozioni, e lui così impermeabile a tutto, per tornare a tremare doveva trovarsi davanti nientemeno che se stesso.
È nella propria casa da sogno ma sembra che si sia accomodato in un incubo, di quelli che non si riesce ad uscirne, anche volendo.
Ad un tratto imperversa un rumore acuto, sembra un forte fischio ma più effettuato, quasi ci fosse qualcuno alle prese con un VCS3, poi si aggiunge una rapida sequenza di lampi, flash e bagliori talmente ineffabili la cui origine pare reclamata dall’elettronica e dagli astri assieme, a cui fa da contraltare una coltre biancastra, niente di strampalato a vederci qualcosa di celestiale visti i canoni cinematografici che abbiamo, un inedito connubio luce-nebbia che illumina lo stupore dei suoi occhi.
Trascorsi questi infiniti secondi di cupo riverbero il protagonista si rivede in momenti di vita vissuta.
È lo spettatore di un cortometraggio della propria vita in cui le immagini, mistero su mistero, vengono proiettate in un ipotetico mirabolante schermo che però non c’è, roba da far piombare il 4d nel mesozoico.
Il nostro si rivede, dapprima nella gavetta, scalpitante e fervente a fare terra bruciata intorno a sé – con la tracotanza che già strabordava e gli sgorgava dalla bocca come la bava ad un cane senza cappottino; poi si rivede nella conclusione di un contratto, uno dei tanti: la trattativa pianificata come un attacco militare, gli aspetti psicologici vivisezionati da uno Jung del male, gli accordi sottobanco, gli appoggi esterni, le pressioni, le minacce (dapprima velate, poi propriamente dette), le clausole nascoste, anche l’infame trattamento riservato alla malcapitata segretaria che aveva la colpa di scrivere l’atto.
Poi passano, random, le immagini delle sue sfuriate, delle sue ingerenze, delle sue vessazioni, delle sue megalomanie, della sua interessata e calibrata gentilezza, dei suoi sermoni col pulpito tentato dalla dissociazione, della corsa dei sottoposti a compiacerlo, delle fila degli stessi per farsi sottomettere e subito dopo a cercare di imitarlo con qualcuno più debole di loro, della sua arte di vendersi, della manipolazione delle persone per scopo e per gusto.
La sceneggiatura accoglie, generosa, tutti i suoi metodi, ma potete scommetterci che qualcuno decisamente impenitente stia parlando di stile, facendo già le prove davanti allo specchio del cesso.
Il meddley lo ha calmato, inizia a riconoscere il dirimpettaio, la paura che scema gli inibisce pudicamente di chiedersi cosa cazzo stia succedendo – perché qualcosa sta succedendo.
L’uomo d’affari preferisce crogiolarsi alla vista di un film che finalmente gli rende onore ed, obnubilandosi, quasi prova vergogna per le sensazioni che ha avvertito qualche attimo prima ma è solo un pensiero fugace, meglio non protrarlo per non macchiare la liturgia in atto.
E’ più conveniente una biografia artefatta di una veritiera.
La proiezione continua e lui è come un bambino quando la maestra legge a tutti i compagni il suo tema, sta provando un sentimento puro, lui che la purezza l’ha abiurata senza mai averla abbracciata.
Ad una persona normale forse diventerebbero lustri gli occhi, a lui, chissà, intanto abbozza un interpretazione, e non può che essere che d’approvazione: l’improvvisato ermeneuta scorge in questa visione un’investitura, per essere divenuto come uno del suo lignaggio dev’essere, per essere divenuto come lui voleva essere.
Infliggere umiliazioni, sfruttare le persone, modificarne il destino, creare personaggi, distruggerne, divertirsi a possedere fisicamente qualcuno o ambire diabolicamente a controllare le menti, essere perennemente un comandante e cingere anche la vita privata, schiacciare le persone fino a fargli uscire l’anima e lo spirito per poi berseli in un calice sacrificale: la sua speculazione è divenuta un assioma.
Quelle immagini profumano di brama, di trampolino, di legittimazione, di agiografia, di famelico e bulimico egocentrismo e sanciscono la potenza raggiunta ed il potere conseguito, eterni come si confà ai sovrani.
Da sempre voluttuoso, è eccitato da se stesso come non mai: è in onda un film col cattivo, il cattivo è lui, e lui pensa di essere non il buono, ma probabilmente il giusto.
O comunque il furbo.
Ogni millimetro di quell’icastica e fuorviante pellicola rende sempre più tronfio il nostro uomo d’affari e con la soddisfazione aumenta, chissà perché, il livore verso il resto dell’umanità.
E non che prima fosse un filantropo…
Questo sistema – senza ampolle, provette ed alambicchi, solo imperniato sulle debolezze umane – ha aggiunto un altro mostro alla nutrita flotta, essere lo spettatore del proprio trionfo lo ha allontanato ancora di più da una realtà che mai ha sopportato.
Più gongola nel vedersi, più le ghiandole endocrine sgorgano onnipotenza a fiotti, più la sua percezione è offuscata.
Le immagini crede siano nettare, bevanda degli gli dei, ma si rivelano solo un intruglio, preparato nel laboratorio della sua cupidigia e tagliato da chiunque ci veda un tornaconto, da iniettarsi nelle vene per una dose che assomiglia sempre più pericolosamente a quella letale.
Ci sono due modalità di interpretare un messaggio allegorico, l’uomo di successo, su imbeccata dell’inseparabile boria, ha immaginato di essere l’artista, trattando le immagini come ha sempre trattato chi gli sta intorno, a suo comodo.
Ma qui non siamo più nel suo mondo, quello degli affari, qui stiamo vivendo qualcosa di paranormale e a giudicare dall’acume con cui maneggia la faccenda, il nostro indomito protagonista sembra essere l’unico a non averlo capito.
Arrogante come i suoi gessati, il nostro ha perduto la voglia di chinarsi per cogliere i segnali che la vita lancia, assuefatto com’è ai baratti, agli aut aut, ai ricatti.
Lui, designatosi onnisciente , è sempre stato attento a captare le frequenze che facevano rima con la parola business, peccato che il denaro lo si possa attirare, mentre i segnali della vita sono tanto parsimoniosi quanto enigmatici, per non dire permalosi.
Sono passati dieci anni e tutto sembra esattamente come quel giorno, ma il potere cambia pelle rapidamente e ricorda quelle giornate di montagna dove nel meriggio il vento scombussola un cielo che solo qualche ora prima prometteva sereno e pareva più sincero del sorriso di un innamorato, ma la giornata finisce in pioggia; o come quando cambia la briscola, le regole sono esattamente le stesse di prima, ma chi comanda è un altro seme.
Ecco, lui pensava che la sua briscola non solo non cambiasse mai, ma che fosse riuscita pure a riscrivere le regole del gioco.
In quegli ambienti capita che per avere aria nuova occorra nuova aria.
La sua (di aria) per qualcuno inizia ad essere viziata e non è sufficiente spalancare la finestra come in una canzone.
Lui che decideva di tutto e di tutti ha subito una scelta altrui, lui che si considerava imperituro è stato messo in disparte, lui osannato come un Dio ha visto la genesi di una nuovo (e temporaneo) profeta, lui riferimento del settore è ora trattato con sussiego, lui monade è stato diviso e liquidato.
L’uomo d’affari non pronuncia l’ignominiosa parola ritiro – figuriamoci pensione, roba da pezzenti – meglio trincerarsi dietro nuovi progetti, consulenze ed amenità limitrofe.
Non è escluso che per qualche tempo il suo irraggiamento riesca ancora a bruciare dei culi, ma la sua brace si sta spegnendo e chi finora lo ha inondato di comburente ha la memoria corta, e di braci guarda quelle che ardono ora, adesso, quelle che ardono e bruciano tutto, tutto e subito, più forte è il crepitio, più l’ossigeno ha il fiatone nello stargli dietro, più vanno bene.
Anche se il viso è buono (abitudine al bluff, vergogna dell’onta), tutto il resto del corpo non si capacita di quanto gli stia accadendo, l’ormai fu uomo di successo si sente come un soldato lasciato solo al fronte dopo aver servito fideisticamente la patria in lungo e in largo e per encomio si ritrova abbandonato, con gli anfibi bucati in mezzo al gelo e con un rancio da far digiunare le ponghe.
Nemmeno la sua corazza se la sente di respingere un simile colpo, l’ex re della sofisticazione della resilienza (a dosi di menefreghismo) è nudo di reazioni, vuoto di tempra, azzerato di nerbo, scippato di idee.
Ritiene giusto che lui debba ancora guidare e tutti gli altri debbano seguirlo, temerlo, adorarlo e servirlo, la reverenza nei suoi confronti è contenuta nel cofanetto dei suoi diritti naturali al pari della celebrazione del suo culto, rimarrà sempre sopra gli altri, un eletto.
Un capriccio isterico che cela la velleità di rimanere avvinghiato al comando e al successo, ma è così frastornato da non accorgersi di stare già rotolando dopo il più sonoro dei calci nel culo.
Il suo personale senso di giustizia – frutto di una distorta quanto naufragata meritocrazia – esattamente come la sua voglia di potere si poggia sugli stessi meccanismi dei buoni sentimenti e della sincera afflizione.
Curiosa la bestia umana, se la cattiveria e la bontà nascono e crescono assieme e differiscono solo negli effetti prodotti, ecco in parte spiegate certe esistenze vissute in un’eterna e paludosa dicotomia.
Distinguere poi la cattiveria dalla bontà richiede più acume del previsto.
Se fosse nel giorno del giudizio universale l’uomo d’affari affranto si schiererebbe più altero che mai fissando tutti negli occhi, e col petto infuori e con la voce stentorea, reclamerebbe (con un aneddoto per ogni medaglia della giacca) i meriti sul campo per tornare sul campo.
Ma fra tutti i pensieri che sono apparsi reclamando la parola, fra tutti gli afflati di rivalsa, fra tutti gli aneliti di risalita, mai che abbia ripensato a quell’incontro di dieci anni prima.
I segnali della vita, ricorderete, tanto parsimoniosi quanto enigmatici, per non dire permalosi, quelli che l’uomo di successo non si era degnato di raccogliere.
Perennemente insofferente, per tutto il giorno ha il groppo in gola degli indigenti e la stessa solerte ansia che ha consumato per una vita i dirimpettai.
I cupi pensieri che la logica si sforza di mandare via sembrano attirati ed acclamati da un mostro che alberga in lui, la mestizia ha le sembianze di uno sciame di zanzare, e quando, ormai esanime, l’uomo d’affari decaduto prende coraggio, agita la mano e si sforza di mandarle via, sa perfettamente che dopo pochi minuti torneranno a pungerlo, nello stesso punto come in altri.
E’ a letto, simbolo di quel ristoro che per lui è divenuto un perfetto sconosciuto, e dopo insistenti tentativi è riuscito ad addormentarsi.
Nella fase iniziale del sonno, l’inconscio si mischia ai pensieri, l’imponderabile alla razionalità, le speranze alle paure; l’attività onirica pesca dal cervello, dai rigurgiti dell’anima e chissà da cos’altro è influenzata.
Il nostro uomo, non più in affari, lontano dal successo, ormai solo in disgrazia, non sembra il tipo da credere alle premonizioni né uno che si sia mai fatto prendere dalla mitologia greca.
L’avesse fatto, forse vivrebbe in maniera diversa il nuovo incontro che lo sta attendendo.
Anni fa era stato un uomo (cioè se stesso) ad accendere il più incredibile degli incontri, stavolta è il sesso femminile ad apparirgli – una donna indubbiamente, ma con foggia e sembianze che lasciano intendere ci sia dell’altro.
Se il protagonista sia sveglio o stia dormendo è un dubbio che nemmeno lui può sciogliere.
Questa femmina irrompe con un piglio che del gentil sesso ha ben poco, e fa da contraltare coi suoi tratti aggraziati e armonici pur con uno sguardo tanto severo da far pensare tout court ad un’ordalia o a qualcosa inerente ad un’inquisizione.
Il contesto è cupo come la notte e come un sonno affannato, fattispecie che mette ancora più in risalto la sua imponente ed ingombrante figura – non per dimensioni, ma per presenza scenica.
Lei ha portato il gelo nel già vituperato uomo, che esangue riesce solo a spalancare la bocca senza aver più nemmeno un abbrivio per poterla richiudere, né la forza – figuriamoci la volontà – di replicare alla sua invettiva, neanche con un colorato sospiro.
<Non hai interpretato la sciarada, non certo perché fosse indecifrabile, ma solo perché non hai rispetto per la vita.
Hai avuto la possibilità di redimerti e non l’hai sfruttata.
E non lo meritavi nemmeno, sarebbe stato ingiusto, ed io invece sono qui per portare giustizia.
La tua coscienza smarrita anche se avesse tentato un’esplorazione avrebbe trovato solo le viscere, ma tu manco ci hai provato.
Questa volta io sarà più diretta, niente significati allegorici, vedrai che stavolta con me capirai perfettamente.
Ti hanno tolto il giochino, la tua sublimazione, il tuo viagra, e senza quel ruolo non sei nessuno, la tua vita era imperniata in quel ruolo e quel ruolo non ce l’hai più.
Ti atteggiavi da onnipotente ma la tua esistenza era nelle mani di qualcun altro che tu non hai mai saputo chi fosse, ti sei dato completamente a sconosciuti pur di regnare.
Hai compiuto malvagità per conto di un’entità astratta, hai calpestato delle persone per conto di un’entità astratta, non ti sei fatto scrupoli pur di raggiungere il tuo scopo, neanch’io me ne farò pur di portare a termine la mia missione.
Il potere che hai rincorso, e raggiunto, distrugge l’essere umano, mi sembra doveroso fare altrettanto con te.
Tu vedi me, ma è come se avessi davanti tutta la pletora di persone che hai fatto soffrire, tante eh…
Ascoltami bene, adesso ti svelo il tuo futuro: morirai, non prestissimo, non prima di essere impazzito, rendendoti conto ogni giorno di impazzire, quindi avrai capito che soffrirai parecchio, sarà una cosa veramente atroce, fra le punizioni più crudeli che abbia mai inflitto – e la lista è lunga – perché sei un grosso pezzo di merda, ed i grossi pezzi di merda meritano di essere trattati da grossi pezzi di merda.
Fosse stato per me ti sarebbe successo prima, ma non posso decidere tutto io, vedrò di recuperare con l’intensità della pena.
Tutti i tuoi soldi, tutte le tue proprietà, tutte le persone influenti che ancora conosci – no, non ho detto l’influenza che hai sulle persone, perché quella è terminata assieme al tuo incarico – dicevo, tutto quello che possiedi non ti servirà assolutamente a nulla.
Tutto superfluo.
Tu hai rincorso il superfluo ed io ti riporto alla realtà.
In questo momento ti starai chiedendo se io sono solo un brutto sogno o qualcosa di peggio – e tu stai sperando nel brutto sogno: io aggiusto e rivelo e peggio di quello che ti capiterà c’è solo il conoscerlo in anticipo.
Adesso invece ti stai domandando perché proprio a te, evidentemente qualche altro stronzo tuo simile se l’è cavata, intanto comincio da te poi ho intenzione di fare un po' di straordinari, e proprio nel tuo settore.
D’ora in poi vivrai dei momenti talmente brutti che non vedrai l’ora che finiscano, solo che quello successivo sarà sempre peggio, in un escalation infinita.
Hai visto che io sono stata più diretta…
Non ho altro da aggiungere.>

Come prima più di prima

26 Nov

Nei primissimi anni Novanta – quando questa storia ebbe inizio – il Mondo pareva combattuto fra proseguire senza soluzione di continuità con i comodi, divertenti, vacui e perniciosi Ottanta, fra insaziabili prurigini da Terzo Millennio, fra mutare i sistemi di comando e fra il bisogno di redimersi un po’.
Eccetto l’ultima, scegliete voi: la risposta andrà comunque bene.
Il sorteggio per la composizione delle prime superiori targate 1991/92 non venne proiettato in Eurovisione; un peccato, se non altro perché la sigla era davvero suggestiva.
Più che benevola, quell’urna – se di urna si trattò – si rivelerà determinante per noi cinque ragazzi che il primo giorno di scuola immaginavamo tutto fuorché l’avvio di un sodalizio.
Già dal secondo giorno di permanenza in quello specchio della società ognuno di noi cinque capì che qualcuno – a prescindere dall’età – era più stronzo, qualcuno più peso, qualcun altro più smaliziato.
Ma anche che qualcuno gli somigliava.
Forse avremmo fatto ognuno il proprio identico percorso incontrando altre persone nel nostro cammino, o forse saremmo stati prima calpestati e poi inghiottiti da quella folla, o semplicemente oggi racconterei una storia dai contorni differenti.
A quell’età, in una colonna sonora di assoluta spensieratezza, fanno visita i primi groppi allo stomaco, corroborati dal fatto che non conosci le tue qualità, ma nemmeno intuisci perché a volte tiri delle bestemmie senza un apparente motivo, oppure perché quel motivo sono le relazioni con certi altri e certe altre.
Di quella che conoscemmo poi come introspezione – allora il termine lo si poteva sentire giusto da Marzullo o al Maurizio Costanzo Show in qualche serata deluxe– a quei tempi si poteva intravedere al massimo un rudimentale abbozzo, per gente che non riusciva ad accettare la sconfitta della squadra del cuore figuriamoci quanto potesse costare ammettere un proprio limite o una propria debolezza.
In un confronto all’americana “Allora vs Oggi” sembra essere cambiato tutto – la società non era interconnessa; il CD era la massima frontiera del digitale; per comunicare i più fighini avevano in saccoccia le tessere telefoniche, i più pratici qualche gettone da 200 lire, la restante parte si accontentava di raccontarlo di persona al suo arrivo; i vestiti erano di tre taglie più grandi che per immaginare tutto ci voleva altro che una fervida immaginazione; i tagli di capelli erano moderatamente improponibili (e difatti sono tornati attuali); apparire non era un obbligo imposto a tutti ma una facoltà esercitabile a discrezione del richiedente; c’era ancora qualche anfratto dove poter sbagliare e fare delle sane figure di merda.
Da adolescenti poi, la capacità decisionale è ingarbugliata come una musicassetta inceppata nel mangianastri, ma allora – come oggi, e come sempre sarà – un salvifico istinto ci fece avvicinare ai propri simili, basta nasarsi un po’ , ascoltare qualche commento, osservare gli atteggiamenti, carpire qualche reazione ed un ancestrale magnetismo tara la giusta alchimia e si è bell’e che creato una sintonia e nel caso, un gruppo.
Qualcuno già amico e qualcuno perfetto estraneo, totale noi cinque: nella massa incarnando l’archetipo di chi non ha intenzione di seguirla ad oltranza, ma nemmeno di distinguersi ad ogni costo, né sfigati né fenomeni, educatamente casinisti e dissacrantemente corretti, stanziavamo in quella terra di mezzo oggi depredata dalla nuova esasperazione, ilari senza sconfinare nel cretinismo, madidi d’ingenuità, pieni di convinzioni pur nelle nostre fisiologiche insicurezze, eravamo l’applicazione pratica di come una persona possa essere in anticipo su certe questioni, in ritardo su altre e perfettamente nella media con le rimanenti.
Stare insieme era un bisogno, una bramosa necessità, ci dava gusto, era l’egida che noi stessi ci eravamo costruiti e che sapeva esaltare le nostre personalità.
Il tempo intanto ha messo qualche puntino sulle “i”, archiviato i sospesi (creandone qualcun’altro) e confermato le sue precedenti visioni – i prodromi anche stavolta non si sono sbagliati, i finti esegeti sì.
Trent’anni tutti d’un fiato, con qualche logica pausa, d’altronde le cose che contano devi difenderle sempre un po’ , come cantava un gruppo bolognese.
Le parallele esperienze personali – simili, diverse, identiche, opposte – hanno fatto convergere ancor di più le nostre forma mentis, che rimangono differenti, indipendenti e sovrapponibili.
Non è la saga dell’ossimoro, ma un approccio alla vita, tanto spontaneo quanto cercato.
Trent’anni tutti d’un fiato, e delle immense compagnie oggi restano bellissimi ricordi che devono rimanere tali, mentre il numero, ahimè, si è sfoltito, come quando la prof di mate ci insegnava a ridurre ai minimi termini.
O era forse la lezione di scienze sulla selezione naturale?
Nessun acredine, in genere, solo che adesso stare bene con gli altri è una questione di qualità, altro che una formalità, ed il personale e ristretto club di ciascuno annovera anche gli altri quattro (e non solo).
E’ un club dove l’uno anticipa il pensiero dell’altro, dove si pronuncia la stessa parola nello stesso momento, dove le battute sembrano sketch d’avanspettacolo, dove ti aspetti sia una rassicurante risposta sia la quintessenza dello stupore, dove un sorriso lo strappi sempre e comunque.
Capita con una donna e capita anche fra uomini.
Vedersi è un obiettivo ma non un assillo, la percezione della presenza c’è a prescindere ed è cementata dall’intesa che non ci impedisce di voler dissentire, col sottofondo magari di rumorose discussioni che spaventano gli astanti nelle quali si ha voglia di dibattere per convincere l’altro ed inconsciamente di convincersi dell’altro.
Trent’anni tutti d’un fiato, ed eccoci più coraggiosi in un maggior equilibrio, sempre selvatici, fatti alla nostra maniera perché le origini non si scordano di bussarti alla porta e tu non vedi l’ora di aprirgli e poi perché quelli perfettini ci sono sempre stati sulle palle.
Fra i tanti modi di assaporare gaudiosi la vita il nostro non rinuncia alla profondità, vogliamo ridere senza sprecare una sola ristata e pure la baracca fa sempre un giro nella serietà prima di chiudere il cerchio, non si può vivere scegliendo solo le tal sfaccettature.
Oppure si può, ma a noi non piace.
Per noi essere positivi non significa affatto farsi piacere tutto, e difatti siamo piuttosto difficili, pazienza poi alle etichette, come nei maglioni quando grattano troppo si tagliano.
Trent’anni tutto d’un fiato e siamo rimasti noi stessi, evoluti, abbiamo mantenuto un’amicizia, fortificandola.
E non abbiamo assolutamente terminato.

L’intellettuale sconfitto

29 Set

Intellettuale.
E sconfitto.
Ma non domo.
Emarginato, pur lontano dall’oblio.
Refrattario alla corrente dominante, ma con in tasca ancora tanto ascendente così.
Isolato, eppure tra la gente.
Ha perso, ne è consapevole, quindi non si è rassegnato.
Anche perché una sconfitta non è mai eterna per chi si vuole risollevare.
L’attuale insuccesso, l’anfiteatro in cui va in scena ed i momentanei vincitori, nutrono la sua vitalità, che la dissidenza ricama temprandola.
Brama, pulsa, detesta sopravvivere, è un disilluso speranzoso.
Appare un nichilista.
O così viene dipinto.
All’idealismo preferisce l’onestà intellettuale, ai dogmi risponde con la curiosità, indossa l’appartenenza con parsimonia e quando questa gli calza perfettamente sente l’atavico richiamo di cambiare pelle per non essere fagocitato.
Prima combatteva cercando consenso.
Ora seleziona, perché il numero è in subordine alla qualità.
Per il momento.
L’intellettuale sconfitto vaga per la città: la paglia penzolante, qualche bicchiere in corpo e pensieri ingombranti che scorrono rumorosi nelle vene e nelle tempie, gli donano un’aria più desolata di quanto non sia in realtà.
Fingono di ignorarlo ma lui è il convitato di pietra delle loro diffamazioni.
Dicono sia qualunquista, meritato dileggio di chi ha a cuore la causa delle persone comuni.
Estremo senza essere estremista, chiama le cose col loro nome e non con quello del tornaconto.
Non essere allineato diventa un onta, pensare in proprio un’aggravante, l’intellettuale sconfitto per loro è un’empia figura.
E il potere delle immagini che ci vogliono proiettare stravince sempre la sfida con la nitida ma opacizzata realtà.
Non ha una meta precisa che però si affretta a raggiungere.
L’intellettuale sconfitto ha i sensi sviluppati, se ai più le cose scorrono intorno o al massimo rimbalzano sul loro muro di gomma, a lui donano spunti che trasforma in segnali.
Cerca di intuire ed intuisce perché cerca.
Una battuta, un nuovo slang, un messaggio subliminale, il comportamento della massa, la manipolazione della massa, il caos od il silenzio, per lui è tutto polline da trasformare in miele.
Spesso amaro.
Come un animale capta tutto con lauto anticipo, a volte se ne duole e vorrebbe condividere con altri le sue suggestioni per riuscire a bloccare gli eventi vaticinati.
O anche solo per alleviare il fardello che si porta appresso.
Si ritrova dunque in piazza, che ha ancora il dono di unire.
Di unire anche chi non ha niente da spartire, chi è ontologicamente differente, chi vive nello stesso posto ma a distanze siderali.
Ma tutti cercano la piazza, anche chi ne ha sempre preso le distanze, chi per vocazione chi per interesse.
O è la piazza a cercare loro.
Quando un luogo è la quintessenza della partecipazione assorbe millenni di energia umana e per osmosi – o per inesplorate meccaniche – diventa sostanza vitale.
Lui sa benissimo che li troverà quasi tutti lì, distesi come pedine pronte ad essere manovrate e l’idea lo nausea e lo stimola al tempo stesso, poi un sano senso di superiorità fa prevalere la seconda sensazione.
Li ha già affrontati, uno alla volta come in gruppo, ed umiliarli non è stato soddisfacente solo perché loro manco se sono accorti e credevano di aver prevalso nell’alterco.
L’intellettuale sconfitto sa che in quel calderone c’è anche chi è in buona fede e vorrebbe essere clemente, ma irrompono le facce degli altri e lì scorge il doppio fine, il situazionismo, poi oramai non è tempo di distinguo, è stanco degli alibi, non perdona più neanche l’ignoranza, colpa e dolo pari sono negli effetti e anche nel giudizio.

I primi che nota sono lì davanti a lui, ma probabilmente vorrebbero essere altrove considerando quanto fracassano la minchia sul provincialismo e quanto esaltino il cosmopolitismo, l’approccio internazionale, le frontiere apertissime e tutte quelle fregnacce economiche associate.
Questi vorrebbero vedere la gente girare più veloci delle merci, il loro metro di giudizio è quanti continenti hai visitato, irridono gli sfigati legati alla loro terra, alle loro origini, ai loro cari, che non accettano un lavoro all’altro capo del Mondo, che non cambiano mestiere (e nazione) almeno una volta ogni 8 mesi.
Loro invece sono sempre in viaggio, per cosa: boh? questi qua quando provano a spiegarti cosa facciano nella vita ne sai meno di prima, ma criticano la tua, legata ad archetipi vecchi, superati, non come loro, che esaltano tutto ciò che è globale, sovranazionale, per rendere l’uomo uno schiavo sempre in movimento e senza una patria.
E quindi, oltre a dirti che sei un perfetto ignorante, dall’alto delle loro esperienze planetarie aggiungono che tu non hai voce in nessun capitolo.
Fra sapere e capire, invece, questi hanno scelto una terza strada lastricata del nulla.
L’intellettuale sconfitto li guarda e scuote il capo con un sorriso fra l’amaro e l’astioso, si volta dopo aver cacciato almeno quattro bestemmioni e la sua vista incontra un gruppo apparentemente più innocuo.
Sono quelli che la raccolta differenziata sconfiggerà l’inquinamento e che l’auto elettrica salverà il Mondo.
Nella loro pelosa dedizione all’ambiente imperniata su ruffiani gesti, mai che gli venga in mente di dire che l’unico modo per allungare la vita al pianeta, e ridare un po’ di dignità al genere umano, sarebbe cambiare il sistema economico…
Macché, loro friggono per svoltare nella green economy, che si rivelerà stronza più o meno come questa, di economie.
Ma lo spirito verde assolve la propria anima, titilla quelle altrui e diventa un comodo lasciapassare.
Per loro, ma soprattutto per il capitalismo d’assalto che potrà così contare su nuovi settori di business.
Si prosegue, qualche passo e senza che si debbano spremere tutte le diottrie è la volta di un capannello di persone ordinato, oggettivamente numeroso eppure poco appariscente.
Sono esattamente schierati dove gli hanno detto di stare.
Utilizzano specularmente i termini che gli hanno imposto.
Ragionano alla stregua di come li hanno istruiti.
Comprano tutto quello chi gli hanno proposto.
Si vestono e si muovono come la moda comanda.
Per gioire, per indignarsi, o anche per ribellarsi (poco, eh), attendono sempre istruzioni dall’alto.
Allineati (e alienati) per scelta (altrui) ma anche per vocazione, nel loro contratto non è contemplato l’approfondimento.
Habitué della retorica, ne ostentano il bulimico abuso e non hanno mai confutato la versione ufficiale e soprattutto, mai hanno pensato di farlo.
Non è necessario disinnescarli perché non si sono mai attivati.
Loro potrebbero scendere in piazza per qualsiasi motivo si inventi il loro burattinaio, come non farsi vedere mai.
Sono gli untori di cui si serve il sistema dominante, una claque gratuita del nostro tempo.
Spiacenti, cari contoterzisti del vivere, ma il rispetto e la pietà vanno meritati.

La piazza è grande, intrinsecamente generosa senza riuscire ad essere pure selettiva: offre un posto per tutti.
Avanti che c’è posto, si potrebbe leggere in un cartello che non c’è, ci sono invece delle persone che l’intellettuale sconfitto riconosce facendo ricorso al suo intuito fisiognomico: labbra sottili, sorrisi spigolosi, pacato tono voce – smieloso per lei, ieratico per lui – sforzatamente accomodanti ma con la sentenza già pronta in canna, infondono smancerie solo per passare alla fustigata, partono gioviali ma diventano presto acidi, livorosi e criticoni, specie con chi non è presente e non può replicare, che sia un loro simile o un impenitente peccatore.
Comando, Controllo e Chiusura mentale, tutto con la C maiouscola; difendono strenuamente la famiglia tradizionale tant’è che ne hanno quasi tutti più d’una, si scagliano contro chi è diverso per coprire le proprie deviazioni, si sono deliberati l’autoinvestitura a Ministri di Dio con la relativa immunità del , hanno una divinità sempre in bocca, la Verità in tasca, nelle mani un rosario e un frustino, e in testa pensieri ultra bigotti.
Bigotti, come loro.
L’intellettuale sconfitto scruta in successione un vivace gruppetto variopinto, nelle loro gesta vorrebbe trovare la difesa dei diritti civili, delle minoranze di genere, la rivendicazione di tutti i diritti e la battaglia per abbattere le relative discriminazioni, vorrebbe trovarli, si sforza di farlo, ma trova solo una patetica carnevalata fatta di fastidiose ostentazione, fastidiose come tutti le ostentazioni sessuali, utili al progetto di rendere destrutturata e amorfa la società.
Proprio quello che vuole il sistema dominante.

Solo a quell’orario l’imbrunire tinge l’ambiente di un colore etereo, dieci minuti dove le cangianti sfumature fanno calare sugli occhi nuove lenti in maniera soffusa che permettono di trascendere, di avviarsi in avventure spazio-temporali e di visitare nuovi luoghi pur restando perfettamente immobili.
In quella aulica atmosfera stona come un ecomostro in un riserva naturale il gruppo che gli si presenta dinanzi.
Chissà quale battaglia del cazzo appoggeranno stasera – si chiede l’intellettuale sconfitto – per rendersi protagonisti, visto che oramai hanno difeso tutti (perlopiù degli stronzi e dei potenti) tranne il proletariato, vetusta parola che a loro, però, qualcosa dovrebbe dire.
In realtà gli risulta afona perché hanno sempre adorato il potere ed i soldi ma hanno capito che avrebbero potuto ottenerlo (il potere) e stringerli (i quattrini) più rapidamente e senza lasciare sospetti se avessero giocato al piccolo rivoluzionario da salotto, la scorciatoia degli insospettabili.
Più passa il tempo e più le loro evve mosce diventano urticanti, più la loro presunta cultura evapora, più gli si augura di sparire.
La pattumiera della storia per loro troverà sempre un posticino.
L’intellettuale sconfitto istintivamente cerca un altro gruppo, lui è certo della loro presenza che difatti scova in contemporanea con l’intuizione: eccoli, anche se sono in gita la loro espressione da ebeti invasati non muta, quella hanno.
Duri, massicci e spietati nei social, al bar o allo stadio, violenti tanto nei commenti quanto negli atteggiamenti, leoni coi più deboli ma remissivi coi forti, moralisti a casa degli altri ma non così integerrimi nella propria vita, inneggiano a dittatori, esercito e golpe, si adoperano per una svolta autoritaria.
Sono una dimostrazione di quanti danni possa fare il fanatismo mischiato all’ignoranza.

L’intellettuale sconfitto cavalca l’artefatta indifferenza nei suoi confronti per non lasciare traccia di sé, ad un tratto con la scusa di fissare i lampioni e assaporare la nuova livrea della piazza sente il bisogno di fermarsi e di ricaricarsi col brusio indefinibile della gente.
Solo qualche attimo, per la verità, ed il suo sguardo assorto è richiamato all’ordine da alcuni esponenti che lui conosce benissimo anche se non ha ancora trovato la definizione più calzante, e così si affida principalmente a degli insulti, che rendono comunque l’idea.
Alla loro vista l’intellettuale sconfitto, scherzando con se stesso, gioca ad irrigidirsi, stringe le chiappe e mima, scanzonato, di voltarsi preoccupato accertandosi di non avere nessuno di loro alle spalle.
Perché quelli lì te lo mettono nel culo, sembrano progettati e costruiti per quello.
Sono portatori di istanze apparentemente inattaccabili, fingono di sprigionare tracce democratiche e popolari che sono il loro passepartout per rigettare qualsiasi accusa di autoritarismo, hanno un fare sacerdotale da prete mancato ed un ossequio totale (opportunamente mascherato) al pensiero che conta in quel momento.
Perennemente ragionevoli, incazzati quando gli fa comodo, ma mai con odio (l’odio è dei loro nemici), nei loro discorsi premettono sempre di sostenere la libertà e la democrazia, così da permettersi, nelle loro patetiche intemerate, di difendere sempre chi comanda.
Bravissimi a giocare alle vittima e nondimeno ad inventarsi nemici che non hanno per accrescere l’ influenza e far luccicare l’ iconografia.
Mai schierati, sono terzisti dichiarati, quindi fra i primi ad essere a libro paga.
L’intellettuale sconfitto sfoglia nel proprio cervello un’ipotetica margherita per vedere chi troverà ora.
E spuntano loro, una sparuta comitiva che parlotta con un’espressione pregna di superiorità.
Verso tutto e verso tutti.
Sprezzanti nei pensieri come nei commenti.
Gli si fa incontro.
Ma quanti libri che hanno letto!
Ma quanti film che hanno visto!
A quante mostre hanno partecipato!
Ma quanti viaggi che hanno fatto!
E quanto cazzo lo rimarcano!!!
Sembra che sia una loro esclusiva…
Loro sanno quindi loro possono, gli altri non sanno niente, ‘sti cialtroni.
Esaltano le vite a mille all’ora di certi artisti maledetti e nel scimmiottarli sono la caricatura di se stessi.
Esistenzialisti con la paghetta di papà, on the road purché in prima classe, bohémien col posto fisso, decadenti ma in carriera, democratici in base al censo, puristi con l’attrazione per le lobby, inventori della propria élite, si credono aristocratici mancati ed intellettuali nel secolo sbagliato e per questo sono biliosi col popolo – così incolto, così rozzo – da fargli rinnegare anche le proprie origini.
L’intellettuale sconfitto ringrazia se stesso per aver preso residenza nella minoranza ma sarebbe felice, un giorno, di poter finalmente traslocare.

Terminata la Via Crucis, con un movimento della testa fiero e progressivo, guarda in alto nel Palazzo (saranno qualche decina di metri, non di più), la finestra aperta del penultimo piano gli permettere di scorgere ben più delle semplici sagome.
Sono in un numero sufficiente a raggiungere il loro obiettivo, ma potrebbero essere anche in meno, si muovono ragionevoli e felpati, hanno espressioni silenziose, imperative, occhi da serpe che iniettano una flemma letale e con la calma (una calma che deve saper mettere anche ansia) di chi ha tutto sotto controllo approvano, annuiscono all’unisono per quanto stanno vedendo là sotto, facendo trapelare solo una fetta della loro compiacenza.
All’intellettuale sconfitto scappa da vivere.
, parlando anche a nome dei suoi simili.

Maddecheao!

25 Mar

Eccola la nostra famigliola, un archetipo che lambisce più lo spot pubblicitario che il concetto arcaico di famiglia: mamma dai tratti gentili, sorriso luminoso, che deve infondere dinamismo ma anche arrapare un pò; papà dal viso rassicurante, uno che non sembra incazzarsi mai nonostante i mille impegni, e poi i bambini; oh,in ‘ste famiglie sono sempre maschio e femmina e biondo camomilla.
(Boh, che shampo useranno poi…)
Solo il cane non c’è, se no il quadretto sarebbe perfetto, ma solo perché è uscito a farsi una pignatta di cazzi suoi, povera bestiola ne ha bisogno, lunedì prossimo l’aspetta la prima seduta dallo psicologo per i canidi.
Depressione, si vocifera, la sua razza ne è predisposta.
In compenso c’è il nonno, anche se il suo tasso di partecipazione è paragonabile a quello di Edmundo alla causa viola durante il Carnevale ’99.
O così almeno sembra.
Non capita spesso che la famiglia sia riunita, difatti per l’occasione il papà sta leggendo fervidamente una rivista finanziaria, di quelle che non azzeccherà nemmeno una delle sue previsioni, cioè come tutte; la mamma sta guardando una roba inutile alla Tv ma è indecisa se cambiare e seguire una cagata colossale su un altro canale sempre a pagamento; il bambino è immerso nel suo videogame e la bambina è ipnotizzata sia dalla (seconda) televisione sia dal suo tablet, praticamente sembra un’epilettica inebetita, ma alla fine il tablet avrà la meglio e se la inghiottirà.
Il nonno dopo alcuni tentativi di fare qualcosa tutti assieme – efficace come vendere la braciola di maiale in Arabia Saudita – si è appisolato, attività decisamente più appagante in quel focolare.
La mamma nel suo zapping ossessivo-compulsivo arriva ad un programma d’inchiesta (esistono ancora) che a lei non suscita una grandissima reazione (d’altronde affronta temi scottanti) ma che ha il merito di risvegliare dal torpore il maschietto, segno che la lobotomia alla quale si era sottoposto è ancora interrompibile.
Lui difatti con la spigliata petulante naturalezza dei bambini chiede come mai lo Stato non possa stanziare fondi per i terremotati (che a lui sembrerebbe doveroso) e perché debba chiudere degli ospedali (che a lui sembra crudele).
Giusto il tempo di deglutire e rincara la dose con un suo particolare collegamento “E poi perché a scuola gli insegnanti ci dicono che non ci sono più soldi e ci fanno portare da casa anche la carta igienica?”
Il papà, fresco di lettura-studi, prende la parola col piglio di chi vuole educare ed erudire, chiosando uno stentoreo “Perché ce lo chiede l’Europa”.
Il bambino dopo lo sforzo a lui non congenito non se la sente di controbattere anche perché quella risposta l’ha sentita tante volte nei grandi ed il dubbio che non sia opportuno replicare gli viene, anche se la convinzione non capeggia in lui.
Il servizio alla TV intanto prosegue ed anche la bambina lancia un segnale di presenza delle sue sinapsi (evento non così scontato visto il suo recente doppio elettroshock) domandando il motivo per cui le aziende italiane siano costrette a trasferire all’estero la produzione o a chiudere costringendo le persone ad andarsene.
Lei non vuole perdere le sue amiche per questi motivi.
Stavolta è la mamma a prendere la parola, non vuole essere da meno nell’elargire banalità.
“Sono logiche di mercato, vero caro?” volgendo uno sguardo per catturare l’assenso del marito.
Logiche di mercato legate alla competitività ed al rapporto fra i ricavi ed costi che deve essere sostenibile, aggiunge pedante lui.
Non contento “Il Mondo in pochi anni ha accelerato alla velocità della luce e dobbiamo raccogliere queste nuove sfide, non temerle”.
La bimba, avendo compreso un decimo di quanto asserito dai genitori, si trova in quel limbo in cui non sa se rispondere con veemenza, stare zitta crogiolando i primi istinti di ribellione o lagnarsi dicendo Non è giusto alla risposta-supercazzola.
E’ lo stesso tempo che si interpone fra la botta ed il picco di dolore riveniente.
“Ma papà, che risposta è???” esclama esigente la piccola.
Non sempre chi dorme non piglia pesci, oppure dipende da come dorme.
Fatto sta che è il nonno a rispondere alla nipotina, lui che evidentemente ha seguito attentamente tutto lo strampalato tentativo di maieutica messo in atto dai genitori.
To ‘o dico io: na risposta der cazzo, ecco che è!
Un appoggio morbido.
Che prosegue.
Macche state a ciancicà?Maddecheao!!!’A loggica e ‘a sostenibbilità der mercato provate a magnalle!E dopo provate a spigne a vede che ce viè fuori! Ch’e vostre fregnacce nun rovinate li pupi, voi ormai ‘n ve se caga più niscuno, ma a ste du creature nun je fate er lavaggio der cervello, li mortacci vostra!
Il nonno non era così vispo dal 1988.
O dalla sua ultima erezione.
Che risale al 1988.
Uno dei due esterrefatti genitori abbozza un “Ma…”, solo che viene travolto da quel fiume in piena.
E mme sento dì: Ce lo chiede l’Europa?Si ce lo chiede vor di che c’ha ‘a voce, che è, na persona?Che cazzo è st’Europa?Eurpoa ‘n par de cojoni!Mo ‘a chiamo pur’io si c’ho bisogno: Europa, pijo 900 Euro de pensione e me servono ‘e medicine, damme quarcosa!Europa, me devo fa n’ecografia ma er Cuppe dice che ce vojiono 8 mesi o mezza capoccia, damme li sordi…Vedemo se me risponne…
Ancora.
Io conosco er macellaro, er fruttarolo, er dottò, er cravattaro, a Madama e ca mignotta che batteva qui sotto, ecco si c’hai ‘bbisogno loro li puoi da chiamà, epprova te a chiamà l’Europa
I due fratellini sono alla sesta ola più tuffo carpiato dal comò al divano, paparino e mammina invece annaspano inesorabilmente e quasi rimpiccioliscono.
Mo sai che faccio, vado en giro pe’ mmondo a chiede de damme quello, de fà querrarto e je dico che sò obbrigati sò, che ce ‘o chiede sta ceppa de cazzo, vojo provà…
Non ancora pienamente soddisfatto l’ultra ottuagenario sovversivo chiude con un finale che riesce ad essere teatrale e filosofico.
A fii ‘bbelli, ve state a ingrifà pé na cosa che ve sta a rovinà, me sembrate er cane de Mustafà, quello che ce l’aveva ‘nder culo e diceva che stava a scopà…
I due bimbi hanno trovato il loro nuovo idolo, i genitori invece stanno sfogliando nervosamente la rivista in cerca di argomntazioni per smentire quelle empie frasi pronunziate da un classico populista oltranzista.
E sfoglieranno per un bel pò.

Tra il dire e il fare

7 Gen

In una città di oltre centomila anime due persone potrebbero non incontrarsi mai e rimanere perfette sconosciute.
Anche le loro idee potrebbero rimanere equidistanti.
Oppure no, potrebbero incrociarsi ed arrivare a sovrapporsi.
Per farlo avrebbero bisogno solo di un piccolo aiuto.
Ecco, magari l’astratto dovrebbe semplicemente avvicinarsi al concreto.

Tomas è un operaio, figlio di operai, e si definisce di destra.
Non che sia invischiato in faccende di partiti o manifestazioni, ma se lui andasse al potere (ognuno di noi è andato al potere almeno una volta nel proprio immaginario) saprebbe come dare una bella sistemata alla nazione.
Ci vuole più ordine in giro, cazzo.
Più rispetto delle regole, più pene per chi delinque.
E ognuno deve essere padrone di decidere a casa propria.
Questo pensa Tomas.
E tutti i torti forse non ce li ha.
Ma sarebbe troppo semplice se la questione si esaurisse lì.
Tomas è a conoscenza di qualche effetto collaterale del fascismo (qualcuno, perché oltre quel livello l’inibitore di onestà intellettuale che è in lui impedisce lo step successivo), ma almeno a quei tempi certi episodi non solo non capitavano, ma neanche se li immaginavano.
Così, per sintetizzare il Tomas-pensiero.
Ma Tomas non è un camerata didascalico intriso di fanatismo che va in pellegrinaggio a Predappio, assolutamente.
Gli piace divertirsi, conoscere gente nuova, fare le sue bisbocce, ama molto viaggiare Tomas ed è un tipo spontaneamente empatico.
Ma quando sente qualcuno che si confà a quei precetti lì sopra (e lui con l’occhio lungo scruta la situazione che invece c’è là fuori), beh, ne è attratto e senza conoscere i meccanismi dell’appartenenza intuisce che l’oratore ha toccato proprio le corde giuste.
E tutte in fila.
Sull’immigrazione Tomas è durissimo, pensa che sia la causa di tutti i problemi attuali anche se non ha mai provato veramente ad analizzare il fenomeno a fondo: perché esiste, chi la fomenta, che meccanismi vuole scatenare, che situazioni vuole scardinare, a chi giova.
Non gli serve, quando qualcuno dissente lui ha pronti i suoi personali casi di vita vissuta che corroborano la sua, di tesi.
Una prova provata di cui lui è il Pubblico Ministero, l’Avvocato ed il Giudice.

Pietro invece lavora in un’associazione di volontariato e tanto per formazione quanto per inclinazione si è sempre poggiato sulla tolleranza rigettando qualsiasi forma di xenofobia e discriminazione.
Si vivrebbe meglio se aprissimo le porte, i cuori e i portafogli ai più deboli e rispettassimo anche chi è diverso da noi.
Per sommi capi ecco un riassunto del suo credo.
Difficile contraddirlo.
Ma sarebbe troppo semplice se la questione si esaurisse lì.
Si è sempre immolato alla causa dei migranti perché ha identificato in loro la parte più vulnerabile e bistrattata della società.
Storia alla mano, dal colonialismo in poi, Pietro è convinto che la parte debole da tutelare siano loro.
Un anti-razzista militante, che ha analizzato e studiato il fenomeno a fondo.
Ma da un solo punto di vista che come una calamita gli ha condizionato la rotta.
Non sappiamo se Pietro, nella società globalizzata del Terzo millennio, abbia mai vagliato nuove ipotesi o esteso il suo pensiero.
Difficilmente ne avrà sentito il bisogno, lui crede di brandire convinzioni inoppugnabili.
E’ una persona brillante Pietro, di quelle che non sembrano avere nulla fuori posto.
Talmente corretto nelle risposte e nei comportamenti che a volte le sue stesse azioni paiono dover seguire un copione di buone maniere.
Fin da ragazzo ha avuto la strada spianata, lui il Mondo l’ha osservato sempre da una posizione propizia e vissuto con un atteggiamento irreprensibile.
Da quell’angolazione il suo logos si è compiaciuto, ha trovato conferme, si è auto-generato.
Mettere qualcosa in discussione in quel vellutato architrave è un’ipotesi da non contemplare anche per chi si dichiara un progressista (e tante altre cose).
O forse proprio perché si dichiara un progressista (e tante altre cose).
E a cambiare quel piedistallo quindi non ci ha mai pensato.
Lui no, ma siccome c’è chi può farlo per noi (e non avvisa e manco chiede un parere, figuriamoci un permesso) ecco che Pietro dopo il matrimonio – da cui ha recentemente avuto una bella bimba – si è dovuto trasferire in un altro quartiere.
Un pò la crisi economica, un pò la bolla immobiliare, un pò quel che volete voi ed ecco che quell’angolo di città si è trasformato in quelle che i telegiornali chiamano “zone difficili”.
Ma solo perché non possono (e neanche vogliono) definirle come “zone di merda”.
Perché tali sono: di tutto quello che può far precipitare la qualità della vita, lì statene certi che non manca (quasi) nulla.
Una sfavillante boutique del degrado perennemente aperta.
E che piaccia o no la differenza fra il prima ed il dopo si chiama immigrazione selvaggia.

Alla mensa dell’azienda di Tomas hanno assunto una ragazza marocchina.
Ci sono delle bellezze femminili volgari, altre ridondanti, eccessive, che urlano loro stesse finendo per imbruttirsi; la sua no, è di una finezza aulica che quando la incroci qualcosa viene sparigliato per il motivo opposto.
La tipa sa indossare la propria avvenenza, che potrebbe far osare di più, ma lei si affida al decoro e ad una semplicità che la rendono egualmente ineffabile, seppur lontana dai recenti canoni che hanno a paradigma veline&soubrette.
Non porta il burka, a differenza della madre che saltuariamente la viene ad accompagnare.
“Con tutti i disoccupati italiani che abbiamo c’era da prendere una marocchina.Avanti pure…”.
Ecco la prima, personale ed intima riflessione di Tomas su di lei.
Può darsi che pensi in particolare a sua cugina, a spasso da quattro lunghi anni nonostante la domanda l’abbia inoltrata anche lei, da un bel pò e non solo lì.
Ma la nuova arrivata inizia a conturbare Tomas.
Se ne sono accorti anche i suoi amici che subito lo sferzano tra conversioni all’Islam, pellegrinaggi a La Mecca e bambini di nome Mohamed ed Abdullah (ognuno ha il proprio modo di andare oltre).
Tomas, piccato quanto basta, se la prende in verità più con se stesso che con loro, perché il suo mansionario non prevede un’ipotesi così ignominiosa.
Tutti i giorni le scruta – quasi le analizza – il culo, e poi borbotta a bassa voce (ma cercando di farsi sentire) volgarità degne di un commilitone da film.
Tomas ha un solo obiettivo, scoparla, e parlando da solo ripete che la cosa deve finire lì, sia chiaro.
Sempre più concupito, dopo ogni apprezzamento fa partire regolarmente un insulto, acido come solo quelli gratuiti sanno essere.
“Andrebbe bene chiavata, la stronza!”
L’offesa serve a scaricare la colpa sulla ragazza.
La colpa di piacergli nonostante l’empio status di marocchina.
Capita quando una convinzione è talmente cementata nel cervello da respingere il ragionamento e i sentimenti.
Per attirare l’attenzione Tomas si traveste da moderato di ampie vedute, evita come uno slalomista certi argomenti spinosi (spinosi soprattutto per lui), il resto lo fa il suo bell’aspetto ed un savoir faire da vitellone (che succhia però dall’heritage di movimenti meno intransigenti rispetto a quelli portati a paradigma da Tomas).
Se qualcuno osservasse il susseguirsi dei suoi atteggiamenti potrebbe malignamente sferzare Tomas asserendo che la falsità e l’opportunismo non capeggiano solamente fra i venditori nei suk.
Tomas si atteggia da un personaggio di comodo che non c’è, ma quel gioco di ruoli, inizialmente mendace, inizia ad invischiarlo e a far diventare pruriginosi alcuni commenti (non certo illuminati) dei suoi compari.
Per la cronaca identici a quelli proferiti da Tomas fino a ieri l’altro.
Ma incontro dopo incontro il nostro deve recitare sempre meno perché sta bene con la ragazza, nessuno sobbalzerà dalla sedia sapendo che tra i due nasce una relazione.
Solo quando si riunisce al branco rimette in piedi il cerimoniale dell’uomo occidentale spietato che esce con la magrebina solo per castigarla: un pò per il gusto di zittire i petulanti amici un pò per far risalire le sue quotazioni nell’ambiente, ultimamente affievolite.
All’inizio è palesemente in imbarazzo solo quando incontra i suoi amici in compagnia di lei, combattuto fra la protezione (e l’attenzione) che un uomo deve riservare alla propria donna e l’iconografia duropurista da mantenere ed alimentare, ma non tarda molto a superare questi vetusti blocchi mentali.
L’amore può accecare ma anche aprire la mente più di un corso intensivo di filosofia alla Normale di Pisa.
Tomas per ovvie ragioni inizia a frequentare anche il fratello della tipa: personaggio edotto ma popolare, coinvolgente senza lambire la propaganda nonché abile oratore, astutamente gli fa annusare le affinità tra le due culture imperniate sul senso di appartenenza ed identità.
Ora l’animo di Tomas si è equiparato al suo comportamento, ma nella sua palingenesi non si è mica ritrovato boldriniano, o parleremmo di conversione e straniamento.
Semplicemente, alcuni dei suoi storici capisaldi adesso riesce serenamente a divulgarli alla morosa trovando peraltro diffuso consenso, ma quei pregiudizi avventati e quel partire dal risultato per poi costruirci sopra un pensiero (unico) li ha buttati nel cesso tirando anche l’acqua.
A quanto pare le qualità che esaltava come patrimonio dei nostrani fanno capolino anche ai nativi di altre latitudini.
Nel frattempo il Mondo non si è fermato per vedere la metamorfosi dell’ex intollerante Tomas e purtroppo non si è fermata nemmeno la malattia del padre.
Tomas non ha perso l’abitudine di trovare sempre un colpevole per tutto, solo che stavolta dargli torto è affar duro: il colpevole c’è e si chiama fabbrica.
Tra i parenti (non un infinità, ma nemmeno quattro gatti), tra gli ex colleghi (che sembravano così tanti) e tra la compagnia del bar (che si conferma una compagnia da bar) i più assidui assistenti al papà risultano i familiari della ragazza (marocchina).
Per Tomas è insieme una carezza – piacevole ed unica come solo quella che proviene dal tuo amore può essere – ed un sonoro cazzotto, un altro colpo da KO che rende parte delle sue preistoriche credenze più affossate che traballanti e lo costringe ulteriormente a quell’inutile, imprescindibile e devastante pratica dei rimorsi e dei “Se l’avessi capito prima”.
Attività oltremodo caustica, che permette finalmente a Tomas di leggere gli avvenimenti e non di subirli e che lo porta a modificare il tiro e a indirizzare il suo livore contro qualcosa che ancora non sa identificare, ma che lui intuisce essere il responsabile di questa guerra fra poveri, di cui l’immigrazione rappresenta l’artiglieria pesante.
Tomas vede ora l’immigrazione come il modo per rendere l’essere umano inerte e diluito e dannatamente manovrabile.
Oggi riguarda certe popolazioni, Tomas teme che a breve possa capitare alla sua.

Scippi, furti, risse, spaccio, sporcizia, aggressioni, stupri: l’inciviltà e la delinquenza hanno preso residenza nel quartiere assieme ai nuovi arrivati stranieri, e con esse la paura.
I nervi sono a fior di pelle: toccati da cotanta abiezione gli storici abitanti sono come bestie vessate nella loro tana che vorrebbero tanto mostrare i canini e la bava ma hanno ancora troppo da perdere.
E la situazione non fa che peggiorare.
Il focolare, la casa, il quartiere, non sono altro che proiezioni di ataviche esigenze del proprio io, che in queste abbiette condizioni viene minato.
Se c’è una cosa che manda in tilt è sentirsi impotenti nel proprio territorio, vederselo depredato, assistere al dissolvimento di quello che avevi prima sognato e poi (tutto od in parte) realizzato.
Pietro non si è mai sottratto a far la conoscenza di situazioni difficili, al contrario, ne è sempre stato attratto e ci ha condito la propria iconografia asserendo che tutti dovremmo vederle prima di giudicare.
Ma non ha mai sperato che sua figlia ci crescesse in mezzo.
Pietro non riesce a pronunciare ad alta voce (e nemmeno sussurrarlo alla coscienza) che un’immigrazione incontrollata procura sicuri disastri, per timore che quei pensieri sconfessino la dottrina a cui si è anchilosato.
Pietro ha paura di quella che ancora (per poco) giudica la suburra di ogni essere umano, lui che si sente ontologicamente differente da chi si accontenta di accusare il migrante solo perché differente.
All’evidenza cerca ancora di rispondere col ricettario dei buoni sentimenti.
Predica calma, vuole allontanare affrettati e facili giudizi viscerali che assomigliano a sentenze, in quella polveriera cerca di introdurre l’ingombrante parola comprensione, esorta a non abbandonarsi a biechi istinti e a non cadere nella facile trappola del razzismo.
Ma il primo destinatario della sua omelia è se stesso.
E come tanti, disattende quella predica.
Ricorda un alchimista a cui le formule, una ad una, si stanno pian piano ribellando.
Pietro dopo aver assistito a scene che mai lo avevano coinvolto direttamente (i racconti e le esperienze distaccate sono un altra cosa, diverso quando a testimoniare sono i tuoi occhi e a rimetterci tu ed i tuoi cari) inizia a fare conoscenza con una parte di se che non sapeva esistesse, o forse è quest’ultima che è voluta uscire stanca del soggiorno obbligato in mezzo a retorica, radicalismo chic, accoglienza tout court che hanno solo fortificato il sistema dominante.
Pietro è uno di quelli che aveva sempre tenuto i classici bei discorsi tondi e ragionevoli in cui l’antirazzismo oltranzista era pregno dello stesso peccato che voleva redimere.
E così il modello-Pietro, permeato con tutti i crismi dell’uguaglianza forzata e che pareva edificato con l’antisismica, inizia a sfogliarsi come un castello di sabbia asciugato dal sole.
Pietro impara che si può capire e condannare, essere comprensivi e duri, che la tolleranza contempla anche la fermezza e la critica, quando è proprio il contrario una sintomatologia del razzismo.
Pietro diventa portavoce della circoscrizione, deve andare in mezzo alla gente, a tutta, scopre che quella che una volta apostrofava come xenofobia oggi si può serenamente chiamare autodifesa, che la cattiveria è presente anche nel debole, nell’oppresso, nello sfruttato.
Essere deboli non esenta dall’essere stronzi.
Proprio approfittandosi dell’aurea di debolezza.
L’incedere degli eventi ha fatto da panno che ha tolto l’opacità dalle lenti con cui Pietro ha finora guardato la vita.
Pietro prende coscienza che se le leggi incentivano il crimine quel paese si trasforma in un ricettacolo di delinquenti e che ci sono persone che scelgono di andare proprio in quel paese per farsi beffa della (in)giustizia.
Ammette di essere stato manipolato, lui ed il suo atteggiamento, perché spesso il potere per raggiungere i suoi loschi obiettivi (che vanno sempre raggiunti) da abile parassita si serve dei buoni sentimenti, li sfrutta, li usa a mo di cavalli di Troia.
Pietro comprende altresì che per fare il bene (il bene di tutti, autoctoni ed immigrati) occorre anche il pugno duro e che in tutte le relazioni (o rapporti) i buoni devono essere in due, altrimenti meglio cambiare registro.

Se Tomas e la sua ragazza stiano ancora insieme non è dato a sapersi.
Il matrimonio, la abitudini quotidiane, la convivenza religiosa, l’educazione da dare ai figli: con due culture differenti possono essere ostacoli duri da superare.
Possono, ma non è detto che accada.
Non abbiamo notizie nemmeno dal quartiere di Pietro, e questo potrebbe essere anche un bene.
Forse.
No, Tomas e Pietro non si sono mai conosciuti.
Loro no, ma le loro idee si sono incrociate.
E quasi sovrapposte.

Racconto di pura fantasia, qualsiasi riferimento a fatti o persone è puramente casuale.

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