Nei primissimi anni Novanta – quando questa storia ebbe inizio – il Mondo pareva combattuto fra proseguire senza soluzione di continuità con i comodi, divertenti, vacui e perniciosi Ottanta, fra insaziabili prurigini da Terzo Millennio, fra mutare i sistemi di comando e fra il bisogno di redimersi un po’.
Eccetto l’ultima, scegliete voi: la risposta andrà comunque bene.
Il sorteggio per la composizione delle prime superiori targate 1991/92 non venne proiettato in Eurovisione; un peccato, se non altro perché la sigla era davvero suggestiva.
Più che benevola, quell’urna – se di urna si trattò – si rivelerà determinante per noi cinque ragazzi che il primo giorno di scuola immaginavamo tutto fuorché l’avvio di un sodalizio.
Già dal secondo giorno di permanenza in quello specchio della società ognuno di noi cinque capì che qualcuno – a prescindere dall’età – era più stronzo, qualcuno più peso, qualcun altro più smaliziato.
Ma anche che qualcuno gli somigliava.
Forse avremmo fatto ognuno il proprio identico percorso incontrando altre persone nel nostro cammino, o forse saremmo stati prima calpestati e poi inghiottiti da quella folla, o semplicemente oggi racconterei una storia dai contorni differenti.
A quell’età, in una colonna sonora di assoluta spensieratezza, fanno visita i primi groppi allo stomaco, corroborati dal fatto che non conosci le tue qualità, ma nemmeno intuisci perché a volte tiri delle bestemmie senza un apparente motivo, oppure perché quel motivo sono le relazioni con certi altri e certe altre.
Di quella che conoscemmo poi come introspezione – allora il termine lo si poteva sentire giusto da Marzullo o al Maurizio Costanzo Show in qualche serata deluxe– a quei tempi si poteva intravedere al massimo un rudimentale abbozzo, per gente che non riusciva ad accettare la sconfitta della squadra del cuore figuriamoci quanto potesse costare ammettere un proprio limite o una propria debolezza.
In un confronto all’americana “Allora vs Oggi” sembra essere cambiato tutto – la società non era interconnessa; il CD era la massima frontiera del digitale; per comunicare i più fighini avevano in saccoccia le tessere telefoniche, i più pratici qualche gettone da 200 lire, la restante parte si accontentava di raccontarlo di persona al suo arrivo; i vestiti erano di tre taglie più grandi che per immaginare tutto ci voleva altro che una fervida immaginazione; i tagli di capelli erano moderatamente improponibili (e difatti sono tornati attuali); apparire non era un obbligo imposto a tutti ma una facoltà esercitabile a discrezione del richiedente; c’era ancora qualche anfratto dove poter sbagliare e fare delle sane figure di merda.
Da adolescenti poi, la capacità decisionale è ingarbugliata come una musicassetta inceppata nel mangianastri, ma allora – come oggi, e come sempre sarà – un salvifico istinto ci fece avvicinare ai propri simili, basta nasarsi un po’ , ascoltare qualche commento, osservare gli atteggiamenti, carpire qualche reazione ed un ancestrale magnetismo tara la giusta alchimia e si è bell’e che creato una sintonia e nel caso, un gruppo.
Qualcuno già amico e qualcuno perfetto estraneo, totale noi cinque: nella massa incarnando l’archetipo di chi non ha intenzione di seguirla ad oltranza, ma nemmeno di distinguersi ad ogni costo, né sfigati né fenomeni, educatamente casinisti e dissacrantemente corretti, stanziavamo in quella terra di mezzo oggi depredata dalla nuova esasperazione, ilari senza sconfinare nel cretinismo, madidi d’ingenuità, pieni di convinzioni pur nelle nostre fisiologiche insicurezze, eravamo l’applicazione pratica di come una persona possa essere in anticipo su certe questioni, in ritardo su altre e perfettamente nella media con le rimanenti.
Stare insieme era un bisogno, una bramosa necessità, ci dava gusto, era l’egida che noi stessi ci eravamo costruiti e che sapeva esaltare le nostre personalità.
Il tempo intanto ha messo qualche puntino sulle “i”, archiviato i sospesi (creandone qualcun’altro) e confermato le sue precedenti visioni – i prodromi anche stavolta non si sono sbagliati, i finti esegeti sì.
Trent’anni tutti d’un fiato, con qualche logica pausa, d’altronde le cose che contano devi difenderle sempre un po’ , come cantava un gruppo bolognese.
Le parallele esperienze personali – simili, diverse, identiche, opposte – hanno fatto convergere ancor di più le nostre forma mentis, che rimangono differenti, indipendenti e sovrapponibili.
Non è la saga dell’ossimoro, ma un approccio alla vita, tanto spontaneo quanto cercato.
Trent’anni tutti d’un fiato, e delle immense compagnie oggi restano bellissimi ricordi che devono rimanere tali, mentre il numero, ahimè, si è sfoltito, come quando la prof di mate ci insegnava a ridurre ai minimi termini.
O era forse la lezione di scienze sulla selezione naturale?
Nessun acredine, in genere, solo che adesso stare bene con gli altri è una questione di qualità, altro che una formalità, ed il personale e ristretto club di ciascuno annovera anche gli altri quattro (e non solo).
E’ un club dove l’uno anticipa il pensiero dell’altro, dove si pronuncia la stessa parola nello stesso momento, dove le battute sembrano sketch d’avanspettacolo, dove ti aspetti sia una rassicurante risposta sia la quintessenza dello stupore, dove un sorriso lo strappi sempre e comunque.
Capita con una donna e capita anche fra uomini.
Vedersi è un obiettivo ma non un assillo, la percezione della presenza c’è a prescindere ed è cementata dall’intesa che non ci impedisce di voler dissentire, col sottofondo magari di rumorose discussioni che spaventano gli astanti nelle quali si ha voglia di dibattere per convincere l’altro ed inconsciamente di convincersi dell’altro.
Trent’anni tutti d’un fiato, ed eccoci più coraggiosi in un maggior equilibrio, sempre selvatici, fatti alla nostra maniera perché le origini non si scordano di bussarti alla porta e tu non vedi l’ora di aprirgli e poi perché quelli perfettini ci sono sempre stati sulle palle.
Fra i tanti modi di assaporare gaudiosi la vita il nostro non rinuncia alla profondità, vogliamo ridere senza sprecare una sola ristata e pure la baracca fa sempre un giro nella serietà prima di chiudere il cerchio, non si può vivere scegliendo solo le tal sfaccettature.
Oppure si può, ma a noi non piace.
Per noi essere positivi non significa affatto farsi piacere tutto, e difatti siamo piuttosto difficili, pazienza poi alle etichette, come nei maglioni quando grattano troppo si tagliano.
Trent’anni tutto d’un fiato e siamo rimasti noi stessi, evoluti, abbiamo mantenuto un’amicizia, fortificandola.
E non abbiamo assolutamente terminato.
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