Archivio | dicembre, 2020

Il piacere al centro

15 Dic

E’ sempre la paternità che può risultare incerta, nel suo caso tutti dicevano Fiat e a pochi mesi dalla nascita è spuntata la Lancia ad apporre definitivamente il nome sul libretto ed il simbolo sulla calandra.
Sulla mamma Pininfarina, invece, non ci sono mai stati dubbi e basta guardarla per capire che lei ci abbia messo tutto il resto, o quasi.
Nella Lancia Beta Montecarlo la maggioranza dei cromosomi sono quelli materni.
La Beta Montecarlo, oltre ad essere uno dei simboli delle classiche di casa nostra, è un esempio di che coraggio e fucine di idee vi fossero nell’industria automobilistica italiana nei pur complicati Anni Settanta, se oggi qualche manager di una casa generalista proponesse di creare dal nulla una berlinetta, di commissionare il progetto e la produzione ad un carrozziere esterno e di inserirla nella gamma di una compatta due volumi, verrebbe prima sottoposto ad un TSO e poi internato, e probabilmente già al primo di questi pensieri corsari.
Nonostante la pletora di modelli disponibili c’è più immobilismo ed assenza di idee nel panorama motoristico attuale, dove la massima espressione della creatività è rialzare di qualche centimetro un’utilitaria per fare il verso alle fuoristrada (sic) o di declinare un SUV in una sgraziata pseudo versione coupé con la linea identica a tutte le concorrenti.
Ma torniamo alle cose piacevoli.

E’ un nome ambizioso Montecarlo – ad evocare una località che nel 1975 era già stata terra di conquista per le auto da rally della casa di Chivasso, e lo sarà anche in seguito – che la nostra berlinetta indossa comunque senza complessi e che si rivela un’adeguata e meritata investitura per la sua sportività e non un raffazzonato tentativo di marketing.
Compatta, bassa, grintosa, trasmette dinamismo da ogni angolo la si guardi, la Monte è una due posti secchi insospettabilmente comoda, smaschera solo se abbiamo messo su qualche chilo di troppo nelle fasi di entrata e uscita dall’abitacolo (ma sarebbe più corretto dire discesa e risalita, visti i suoi 119 cm di altezza).
Anche all’interno prosegue la sensazione di essere su una piccola fuoriserie, con ricercatezze che non passano inosservate e che confermano il senso di coinvolgimento col mezzo.
Modernissima all’epoca, non ha perduto nulla del suo fascino, anzi, oggi è definitivamente un’auto senza tempo, una mini supercar, con forme – specie nella 3/4 posteriore e nella fiancata – che ricordano qualche cugina di Maranello (i cromosomi di cui si parlava prima).
Le linee sono più tese rispetto allo standard Pininfarina, Paolo Martin non ha comunque rinunciato a quell’equilibrio, a quell’eleganza e a quella sinuosità tipiche del carrozziere torinese, qui in una salsa decisamente personale, con quei tocchi di raffinatezza imperituri (su tutti, il movimento a salire della linea di cintura all’altezza del deflettore e il raccordo tetto-finestrino posteriore-pinna).
La Beta Montecarlo è un’auto di classe con una personalità tutta sua che non ha mai patito il vorrei ma non posso, certificato dalla curiosità dei passanti la cui ammirazione è tutta per quello che si trovano davanti agli occhi.

La crisi petrolifera del ’73 (ma forse anche qualche logica interna di strategia commerciale) ha mortificato sul nascere idee ben più ardite in termini di potenza del motore, o comunque calmierato suggestioni che si fanno più o meno tutti viste le potenzialità della vettura. Insomma, venti o trenta cavalli in più ci sarebbero stati bene, ma il bialbero Lampredi (che è un gran motore) su un fisico così asciutto fa comunque una bella figura anche in una sua configurazione tutt’altro che estrema e da ottima base per versioni spinte quale è, basta poco per tiragli fuori qualche cavallo vapore in più. Ovviamente un plurifrazionato è un’altra cosa, ma nel vano motore della Beta Montecarlo c’è poi finito un po’ di tutto, dai 4 ai 6 cilindri, carburatori single o in versione coppie di fatto, iniezioni meccaniche ed elettroniche, aspirati e turbo (praticamente i 3/4 del programma sull’elaborazione di una storica).
Perché il telaio sopporta bene, ed anzi ringrazia, ed il resto della meccanica è all’altezza (anche oggi) di una vera sportiva coi fiocchi.
Con “soli” 118 cavalli le hanno forse tarpato un po’ le ali, e sapendola base per vetture iconiche, vincenti e cattive (la Silhouette Turbo e la 037) questa rimpianto aumenta. Guidandola, invece, il piacere di guida profuso, il comportamento diretto, i limiti di tenuta elevati e le prestazioni comunque brillanti inducono a godersi quello che c’è.
E a rimanere ampiamente soddisfatti.
La vettura offre quelle sensazioni di precisione ed agilità tipiche della soluzione a motore centrale, c’è poco da fare, ad averlo proprio lì dietro la schiena cambia la guida e poi l’orecchio vuole la sua parte.
O forse era l’occhio, ma con la Beta Montecarlo sono soddisfatti entrambi, occhio ed orecchio.
Il posizionamento del motore é il suo tratto distintivo, ma non si distingue solo per quello.
Divertentissima in movimento (anche senza correre), affascinante da ferma, raggiunge il parossismo della coreografia (e della vanità del proprietario) con l’apertura a pianoforte del cofano motore.
Se non è arte questa…

Non ne vendettero tante (la produzione si fermerà poco oltre quota 7.500, se consideriamo anche la versione Scorpion destinata oltreoceano), forse rispetto a quello che chiedeva il mercato venne commercializzata troppo tardi e tolta dai listini troppo presto, forse le auto con personalità (e di nicchia) non sempre vengono capite, forse doveva andare così.
Da svariati decenni le sue quotazioni sembrano dover decollare – e negli ultimi anni qualcosa effettivamente si è smosso – ma per una vettura col suo pedigree e col suo palmarès sportivo, oltretutto prodotta in pochi esemplari, la sensazione è che sia ancora sottovalutata e che se avesse un altro marchio sul cofano girerebbero dei prezzi di ben altra levatura.
Avrebbe meritato più successo, ma sapere che ne circolano poche accresce il suo blasone e quella sensazione di far parte di un ristretto club di fortunati.

Ipocrimania, mitocrisia

11 Dic

La nuova frontiera per apparire accoglienti, tolleranti, inclusivi, civili e democratici (che bello essere CIVILI e DEMOCRATICI!) si sintonizza nell’inventare una rantumaglia di iniziative e battaglie a dir poco patetiche, fanno venire in mente quel secchione che si inventava chissà cosa per impressionare il nuovo Prof (cioè per apparire l’invertebrato che era) o quelle periodiche gare per il più bigotto della Parrocchia, solo che qui subentra una ricerca ossessiva di argomentazioni pompose nell’aspetto ma flaccide di contenuti, anzi, infide.
Parità di genere, ecologia, minoranze presunte o esistenti, discriminazioni vere o inventate per nasconderne altre: ormai c’è un fiocco, uno slogan, un simbolo, una recita e una giornata dedicata a tutti, peccato che nelle altre 364, di giornate, gli organizzatori di questi teatrini vomitevoli non muovano un dito in favore di nessuno, anzi, il più delle volte la principale causa delle disgrazie di tutte le attenzionate categorie è la loro struttura, visto che è un’emanazione del capitalismo liberista. Attenzione, perché se alcuni dei temi affrontati in queste baggianate planetarie sono delle autentiche boiate- tipici di chi è un po’ annoiato ed il suo unico cruccio è creare un ruffiano fumo per gli occhi che garantisca visibilità e seguito – ve ne sono altri di estremamente seri, ma sono esibiti per intenerire, lobotomizzare e fregare il popolino (a sua volta animato da intenzioni che tornino buone) e meriterebbero quindi ben altri attivisti di quelle ghenghe che invece detengono il monopolio della solidarietà. Queste saghe dei buoni sentimenti costruiti a tavolino negli effetti non si discostano molto dal gioco delle tre carte, hanno solo la faccia un po’ più presentabile, ma neanche tanto a guardare bene.
Più la gente fa a gara a partecipare a queste messe in scena, a sbattersi per mettere il like per prima, a condividere messaggi lagnosi talmente sdolcinati che rischiano di far venire il diabete anche al tavolo in cucina e a postare la nuova suggestiva immagine che qualcuno ha ideato per loro, e più i beneficiari di queste campagne sono rimasti perlomeno nelle condizioni di prima.
Perché la loro non è filantropia, è marketing; non è umanità, è manifestazione di potere; non è sensibilizzazione, è stordimento; non è socialità, è sociologia; non è difesa dei più deboli, è controllo delle masse; rappresenta la nuova ortodossia liberale dei diritti civili che ha l’obiettivo di distrarre da quelli sociali e da tutto il mare di povertà e catastrofi che sta producendo il modello liberal-progressista (quello CIVILE e DEMOCRATICO).
Si vuole coprire il male esistente con dell’artefatto amore per i disagiati, ma solo quelli più fotogenici, invece alle numerose vittime meno appariscenti del democraticissimo capitalismo globale non è dedicata alcuna giornata, neanche una mezz’oretta.
Spiacenti, fate poco audience e smuovete pochi sostenitori.

Il tipo che disse che una disgrazia non viene mai sola avrà anche portato un po’ sfiga, ma qualche intuizione l’aveva, occorre dargliene atto. Sì perché accanto alla profusione di retorica ed ipocrisia descritta sopra – da sola in grado di affossare il sistema biliare di un adulto di sana e robusta costituzione – si affianca una nuova categoria di addetti all’informazione con lo scettro di veicolare i messaggi, forse proprio nuova del tutto no, più un’evoluzione delle precedenti: il mitomane.
Nella liturgia per officiare il potere il mitomane ha capito che può ritagliarsi una parte da attore protagonista, siccome quelle iniziative sono una evidente presa per i fondelli, il mitomane a cascata ha semplicemente proseguito senza soluzione di continuità e vuole farci un po’ di cresta pure lui.
Dato che il copione è standardizzato, lui punta sull’interpretazione: teatrale, sforzata, ridondante, eccessiva, melodrammatica, con moine che si alternano ad istigazioni e manfrine che sconfinano nel viscerale, per catalizzare l’attenzione e mostrare la sua luccicante autenticità.
Ovviamente artefatta.
Il mitomane trova un terreno fertile in quelle situazioni, ma dotato di inossidabile egotismo non si accontenta, è l’imprenditore di sé stesso -per utilizzare una delle frasi più inutili che esistano, proprio come il nostro – e si inventa ogni occasione buona per farci sapere che lui c’è.
Ci possiamo imbattere in lui nella carta stampata o nelle trasmissioni tv, sui social o in un libro, e purtroppo anche in più combinazioni; moralista e libertino, impegnato e leggero, politicamente corretto ma anche dissacrante, insomma, tutto, al bisogno. Nel mitomane l’unica coerenza è essere più appariscente possibile, la sola ideologia rimanere al centro dell’attenzione.
Esiste il mitomane specialista (si atteggia da super esperto) ed il mitomane prezzemolino (baccaglia su tutto e tutti perché lui è uno di ampia vedute) ma per entrambi esiste solo una cosa: parlare di sé stesso.
Dev’essere un residuato marcescente di infantilismo, quando la fantasia o la noia porta i bambini ad inventarsi amici immaginari e a proiettare sé stessi in mirabolanti avventure per poi raccontarle agli amichetti sperando che sgranino gli occhi. Il mitomane è rimasto così, un bambino cresciuto (male) e se già da piccoli i ballisti seriali erano fastidiosi figuriamoci quelli adulti.
Stiamo parlando del mitomane al maschile esclusivamente per regole grammaticali, la categoria è rappresentata da ambo i sessi, non possiamo sbilanciarci sulle percentuali o qualche mitomane potrebbe iniziare con la lagna delle quote rosa o con qualche intemerata di quella portata lì e bombardarci a ciclo continuo per una settimana.
Il mitomane non ha confini, né vergogna, in nome della libertà di opinione ci scaraventa la sua inutile prosopopea, se qualcuno osa criticarlo – magari per il ventiseiesimo argomento trattato in una settimana e tutti con fare da luminare, oppure per l’inconsistenza dello stile e dei contenuti messi in campo esclusivamente per farsi notare – lui dall’alto del suo piedistallo (ovviamente auto-costruito) tenta di convincere il dirimpettaio a colpi di vittimismo mischiato ad arroganza e supponenza, non cita le sue conoscenze, il suo sapere, cita sé stesso, anche solo il nome.
Al mitomane piace sentirsi chiamato.
Al mitomane piace chiamarsi.
Eroe di battaglie immaginarie, protagonista di aneddoti onirici, tutte le sue proiezioni ortogonali tendono ad un unico punto, il suo, non ama l’approfondimento autentico, ma solo quello pretestuoso, perché ama approfondire solo ciò che lo riguarda servendosi del resto, il mitomane non di rado osa arrivare a definirsi modesto (una evidente meta-dichiarazione) ed esaltare il lavoro di squadra così da esaltare sé stesso.
Arrivista di prima categoria, opportunista semi-mascherato, non si fa scrupoli a sfruttare le disgrazie altrui, salvo criticare gli altri se si comportano esattamente allo stesso modo. Sfoggia una saggezza che ovviamente non ha, si vanta di aver vaticinato eventi di cui ha sbagliato le previsioni, raggiunge l’apice della lucidità quando utilizza il senno di poi (senno altrui, oltretutto).
Poco talento (inutilmente ostentato), poche idee (inutilmente sbandierate), poche intuizioni: il mitomane si atteggia come se ne avesse invece un magazzino pieno e potesse persino fare consegne a domicilio, tanta è l’abbondanza.
Rabdomante di occasioni per parlare di sé anche quando l’argomento è la Guerra dei Trent’anni, è un onanista di sé stesso, irreversibilmente malato di protagonismo, se abbiamo dei dubbi su quale termine rappresenti meglio la sua distorta personalità fra narcisista, egocentrico ed egoista , col mitomane possiamo eliminare l’imbarazzo della scelta ed usarli anche tutti assieme senza rischio di sbagliare diagnosi, l’unico rischio è di scordarne altri.
La sua è una categoria che non conosce il calo demografico e disgraziatamente il mitomane sta diventando l’idolo di quelli che ritengono di avere una vita culturale attiva e anche di quelli che vogliono replicare il suo approccio ad altri contesti, e sta diventando il modello per coloro che ambiscono ad un ruolo simile al suo.
La figura del mitomane si sta diffondendo anche in altri settori, una logica conseguenza di un modello di società che premia chi riesce a vendersi meglio e per primo, e nella fretta non sono richieste particolari qualità, anzi sono vivamente sconsigliate eccetto quelle di imbonire e stupire a seduta stante.

Il mitomane è il frutto di una dubbia e complessa paternità, è il classico concorso di colpa fra una società sempre più permeata sul sensazionalismo, sullo smodato protagonismo, sul massimizzare, sfruttare ed esasperare ogni cosa, che si erge su un’informazione pacchiana e destabilizzante, ma anche su persone evidentemente predisposte a comportarsi in quel modo e che trovano lì il loro habitat naturale.
L’unica arma che abbiamo per combattere il mitomane è non cagarlo proprio.

E’ arrivato

4 Dic

E’ stata dura, soprattutto per il mio amico Ivan che si è sobbarcato tutto (o quasi) il lavoro della pubblicazione – e si è sobbarcato anche le mie manie persecutorie – ma dopo aver scancherato (e tirato dei cancheri) per soquanti mesi fra PDF, margini, caratteri, pagine orfane, bozze e copie di prova, è finalmente arrivato QUEL momento.
Il libro non è più solo un progetto, un’idea, un obiettivo.
Il libro è stato pubblicato.
E devo dire che quando mi è arrivata la prima copia di prova ho provato una sensazione ovviamente bellissima ma in parte nuova, inattesa, strana: l’ho guardato, l’ho toccato, l’ho maneggiato e poi sfogliato un po’ casualmente, in 15 centimetri x 21 quanto che ci può stare dentro!
Ecco, questa atmosfera eterea si è esaurita verso la terza o quarta copia di prova, quando ho iniziato ad andare anche un po’ in matana tanta era la voglia di vederlo pubblicato nella versione definitiva…
Per fortuna ci siamo arrivati.

Il libro si può acquistare nelle due edicole di Casina (RE) oppure on line nei seguenti siti (condizione stabilita dal sito di auto-pubblicazione):
– lulu.com (attenzione però alle spese di spedizione);
– barnesandnoble.com;
– amazon.it.

Come ho scritto nell’introduzione, spero che il libro vi susciti delle reazioni.
Non dico altro, perché sono di parte.