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Semplicemente Ayrton/La vendetta è un piatto che va gustato a Suzuka

2 Mar

Estoril, 23/09/1990: grazie al secondo posto conquistato davanti a Prost il nostro Ayrton Senna ha praticamente messo tutte e due le mani sul campionato.
Diciotto sono i punti di vantaggio sullo storico rivale con tre gare ancora da disputare.
Ma nel successivo GP di Spagna un radiatore tradisce Senna e dimezza il distacco, il francese della Ferrari ritorna così teoricamente in lizza per il titolo.
Il primo ad esserne felice è ovviamente… Ayrton Senna.
Ayrton ce l’ha in testa da un anno e quella rottura permette alla sua idea di non rimanere un’astrazione, visto che il prossimo GP si correrà il 21/10 proprio nella suggestiva pista di Suzuka dove l’anno prima l’acerrima rivalità fra i due ha toccato l’apogeo.

Obbligatorio un passo indietro di 365 giorni.
In Giappone si decide ancora il campionato, è stato così anche nel 1988, solo che adesso è Senna ad inseguire il compagno di scuderia.
Anche in questa stagione l’astro brasiliano è sempre una furia, quando finisce le gare in genere le vince ma i cinque ritiri per noie meccaniche pesano sul computo della classifica e per tenere accese le speranze di bissare il successo iridato Ayrton a Suzuka è obbligato a vincere.
Senna parte davanti a tutti ma Prost lo brucia alla partenza e tenta la fuga, lentamente però il brasiliano gli si riavvicina e quando mancano 6 giri alla fine sferra l’attacco al compagno di squadra ricordandosi il suo vecchio adagio “Non esiste nessuna curva in cui non si possa superare”.
O magari inventando l’aforisma proprio in quella circostanza.
Forse tentare di sopravanzare Prost nella chicane del tringolo non è stata l’idea più fruttuosa balenata a Senna nella sua carriera, o forse è stato proprio il Professore a tessere la trappola inducendo Senna alla spericolata manovra.
Qualunque sia la congettura più plausibile, Ayrton si fionda in uno spiraglio, Alain prima allarga poi chiude la traiettoria, i due si toccano e restano appaiati nelle loro Mc Laren a guardarsi con livore e compatimento, in una delle immagini più iconiche della Formula Uno.
Prost si sfila il casco e saluta la folla, quello che voleva lo ha ottenuto, Senna si fa aiutare dagli steward , riparte passando dalla via di fuga, trova il tempo di fermarsi ai box per cambiare il musetto rovinato e poi in autentica trance agonistica riesce a raggiungere e sorpassare Nannini, sempre nella chicane, ed a vincere la gara.
Altra impresa memorabile.
Mondiale riaperto.
Per poco.
Prost fa ricorso alla Direzione gara che squalifica Senna per condotta non regolamentare.
GP a Nannini, Mondiale a Prost, rapporti ulteriormente precipitati fra i due ed inizio di belligeranza tra Senna e la FIA fra accuse, multe, revoca della licenza, pensieri di ritiro, ed un senso di rivalsa che scandaglia l’animo del pilota di San Paolo.

Torniamo al ’90.
La pista nipponica per non smentirsi è ancora teatro di un possibile match ball.
Senna è sempre affezionato alla pole position e Prost, per il terzo anno di fila, gli è a fianco.
Proprio non possono fare a meno l’uno dell’altro.
Dopo la squalifica combinata a Senna l’anno prima il capo della Fia, il francese Balestre, si esibisce in un altra mossa di palese ingerenza, stabilisce cioè di far partire i piloti qualificatisi con un numero dispari (primo,terzo,quinto,ecc.) dalla parte sporca della pista rigettando la richiesta (lecita) di Senna che sbotta:”Uno si fa un culo cosi per fare la pole e dopo viene spostato nella parte più sporca della pista”.
Non occorre essere un giallista per capire chi sarà avvantaggiato da questa scelta.
Quella decisione, palesemente ingiusta e faziosa, è comburente per quelle braci che ardono dentro a Senna e fa rivivere in lui gli episodi di un anno addietro risvegliando (od esacerbando) gli istinti più vendicativi, se mai si erano assopiti.
Come previsto (e voluto) il campione francese al via ha la meglio su Senna che alla prima curva tiene la traiettoria interna ed entra senza frenare centrando il ferrarista e facendo uscire entrambi in una nuvola di polvere.
I due si incrociano non degnandosi nemmeno di uno sguardo, nessun alterco, nessuna rissa, Senna è calmo, non esulta anche se ha appena vinto il Mondiale, ha fretta di andare ai box, in una dissonanza cognitiva per il gesto istintivamente programmato.
Speronare Prost rientra in quel novero di azioni che non fanno stare meglio ma che un uomo sente come necessarie ed ineluttabili ed il compierle è un ulteriore sforzo e svilimento ma sarebbe altresì frustrante e fucina di rimpianti non metterle in atto.
Probabilmente il pensiero di quel gesto (macerato per un anno od anche solo per un giorno) è stato più edificante della sua mera realizzazione, peraltro attesa con fervente bramosia.
La dichiarazione a fine gara del neo campione del Mondo non lascia adito al minimo dubbio “Dedico questa vittoria a chi mi ha fatto perdere il mondiale ’89… Le corse sono fatte cosi’, a volte finiscono subito dopo il via, a volte a sei giri dalla fine…”.
Il ricorso di Prost stavolta non avrà l’esito dell’anno passato e quindi ufficialmente Senna è per la seconda volta Campione del Mondo

Liberazione: se fossimo costretti a riassumere, dalla prospettiva-Senna, quel GP e quella stagione con una sola parola, il termine più adatto sarebbe quello.
La collisione con Prost e la conquista del titolo iridato sono i due spaghi di un’ingarbugliata matassa assai complicata da stendere, come arduo è comprendere quale, dei due, sia stato il mezzo e quale il fine.
Ayrton riuscì a togliersi un mostro che aveva dentro, un peso che schiacciava la sua già complicata personalità, un nemico in più che si univa ad una nutrita compagnia, di cui si liberò divenendo l’esorcista di se stesso.
La vendetta ha un significato etimologico solitamente negativo, al pari della reazione, nella vita come nello sport, che trascina la vittima nella stessa suburra del carnefice finendo per coprirli della stessa onta.
Senna col botto di Suzuka sdoganò questo ignominioso comportamento con un gesto umano, impavido, intimo, individualista, personale, proprio di chi vuole riprendersi quanto scorrettamente depredatogli.
Il cattolico Senna sembrò affidarsi alla Dea Nemesi nel distribuire le pene secondo la legge del contrappasso: chi di sportellata ferisce, di sportellata perisce.
Il credente Senna non porse l’altra guancia ma vendicò quella colpita, non aspettò il Giudizio del Signore ma applicò – per una questione meramente terrena, viepiù prosaica come le corse – il proprio, di giudizi.
Il religioso Senna cedette al solipsismo, gli capiterà ancora nel corso della sua carriera.
L’uomo si affiancò al pilota per sistemare i conti con quelle che Ayrton riteneva delle ingiustizie ed assieme si inventarono (più che cercarono) una rivalsa nei confronti di chi voleva tarpare le ali al pilota più veloce con la politica e far provare a qualcun’altro la stessa sensazione, per punire, restituire, forse chissà, anche per sensibilizzare.
L’incidente con Prost nell’89 rappresentò una di quelle contusioni che di solito guariscono (quindi si regolano) in pista, mentre le decisioni del dopo gara (e quelle sull’ordine di partenza dell’anno dopo) furono un colpo secco, chirurgico e premeditato sferrato sopra un livido ancora pulsante che renderanno l’uomo in balia dei propri istinti di difesa più belligeranti.
Le manovre di palazzo raramente si esimono dall’essere dei soprusi e fecero scoprire, uno ad uno, i nervi di Senna, più avvezzo a circoscrivere la battaglia nel circuito che non nelle stanze del potere o a tavolino; col tempo Senna con quelle pelose situazioni imparò a conviverci, non certo a farci l’abitudine.
Il campione brasiliano fra i cordoli era un satanasso, più d’uno sosteneva che rischiasse sempre troppo e tenero non lo era mai stato con nessuno, cosicchè i suoi rivali l’avevano conosciuto alla svelta e a proprie spese e nondimeno lo avevano proclamato, obtorto collo, come il più bravo di tutti.
Ma con quel gesto Senna assurse a demiurgo, compì un balzo di autorevolezza, lui che aveva già spiccato il volo.
Fu un messaggio devastante per gli altri piloti: se già prima Senna era considerato (quasi) imbattibile ora anche i pensieri più meschini partoriti per batterlo, venivano disinnescati ed annientati alla fonte.

La vita regala degli insegnamenti quando meno ce lo aspettiamo: quella domenica mattina, con una sveglia spaesata a suonare all’alba, davanti alla televisione assistetti ad una lezione; sul rispetto, sulla remissività, sulla giustizia, sul diritto degli uomini a non farsi calpestare e a reagire, anche con la forza, quando i propri meriti vengono offuscati o peggio cancellati con metodi loschi da chicchessia.

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Semplicemente Ayrton/Profeta in patria

14 Gen

Quattro anni del blog ed un solo articolo su di LUI, questo https://shiatsu77.me/2014/08/28/oltre-il-mito-oltre-la-leggenda/.
Non ho spiegazioni, né scuse, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Facciamo che siete dei piloti e che potete attingere a mani basse dall’immaginazione per dipingere la sceneggiatura di una vittoria su una pista a cui tenete particolarmente, magari la pista di casa vostra.
Non lesinate, avete carta bianca, oltre all’ovvio epilogo sono concessi qualsiasi tipo di prologo, trama, contesto, sorprese ed effetti speciali.
In questa attività onirica vi è permesso chiedere aiuto ad amici e parenti o scomodare registi e drammaturghi.
Mi spiace deludervi, ma qualsiasi cosa abbiate partorito non raggiungerà mai le vette di pathos toccate ad Interlagos il 24/03/1991.
Fino a quella data la sentenza Nemo propheta in patria non aveva risparmiato nemmeno Ayrton Senna, che in Brasile al massimo annoverava un secondo ed un terzo posto.
Questa volta più che il suo proverbiale perfezionismo e la sua bulimia di vittorie crediamo fosse l’amore viscerale per la propria terra a creare in Ayrton un senso di incompiutezza, lui che orgogliosamente si sentiva un portabandiera di quel Brasile, con tutti i sensi del dovere che una responsabilità di quella portata implica.
Il sospetto che sia un dettaglio funzionale a scriverci un romanzato articolo potrebbe nascere: Senna, dirà qualcuno, aveva vinto già due Mondiali e si apprestava a conquistare il terzo, era il pilota più forte, famoso, pagato ed amato del circus.
Sì, ma non dimenticate mai gli orizzonti mentali del campione di San Paolo.

Che Senna partì dalla pole mi sono accorto ora che potevo fare a meno di scriverlo.
Scattò in testa eppure in diverse riprese Mansell sembrava più veloce e pareva essere in grado di superarlo ma una foratura prima rallenterà il Leone inglese, poi la rottura del cambio lo costringerà al definitivo ritiro.
Non sarà solo il cambio della Williams a creare problemi, al 60° giro nella trasmissione della McLaren di Senna si ruppe la quarta.
E sarà solo il preambolo, Ayrton in breve perdette tutte le altre marce ad eccezione della sesta.
E le Formula Uno di allora non erano esattamente elastiche come i turbodiesel che guidiamo oggi.
Nei tornanti la sua monoposto sembrava fermarsi, se Senna avesse potuto scendere a dare una spinta la sua MP4 sarebbe andata sicuramente più forte.
Senna, il pilota che aveva riscritto il concetto di guida al limite, si trovava a contorcersi perché la sua vettura arrancava rischiando a più riprese di spegnersi.
Un pò la legge del contrappasso, un pò un obolo reclamato dal destino, un pò qualcos’altro di indefinibile che dà alla storia un aura affascinante, fatto sta che si percepì che nel suo abitacolo il pilota della Mc Laren stesse combattendo contro un demone intenzionato a sopraffarlo.
Il nostro aveva le sembianze di un equilibrista che si barcamenava a gestire una situazione kafkiana, esacerbata dalla tensione per essere ad un passo dalla vittoria e di vedersela sfuggire.
E mancare un’altra volta la vittoria nel GP di casa era una fattispecie che stava logorando Ayrton.
Lo stress si mischiava all’agonia fisica in una miscela deleteria, quella condizione non sarebbe stata sopportabile a lungo.
Ma c’erano da percorrere ancora una decina di giri.
Grazie alle sue acrobazie, al raggiungimento di una momentanea atarassia (forse) ed anche ai problemi meccanici che afflissero l’altra Williams di Patrese, Senna riuscì a completare in testa anche il 71°giro assicurandosi l’agognato primo gradino del podio.
A 31 anni era finalmente riuscito a trionfare nella propria terra: il macigno che Ayrton portava dentro doveva essere un fardello pesantissimo a giudicare dalle urla che si udirono dalla camercar appena tagliato il traguardo.
Lancinanti, paranormali, disumane, toccanti come pochi altri suoni.
No, decisamente quello non poteva essere solo un grido di esultanza, aveva tutte le sembianze di una liberazione e di un’espiazione.
Il Senna dei sorpassi impossibili, del ritmo frenetico, delle traiettorie impostate schernendo le leggi della fisica quel dì si travestì da un fedele guerriero che servì allo sfinimento la causa patriottica affidatagli: il talento lasciò il posto alla sofferenza, l’estetismo fu soverchiato dalla necessità, accettò ogni tipo di angheria e di tortura pur di giungere nella sua terra promessa.
Senna finì la corsa stravolto, aveva i muscoli del collo e delle spalle completamente contratti e fu estratto a fatica dall’abitacolo.
Ma la bandiera carioca era stata issata.

La vita di Senna è sempre piombata senza soluzione di continuità nelle sue gare lasciando evidenti tracce, dal granellino al pezzo grosso così.
Già detto della brasilianità, Interlagos ’91 racchiude un altro aspetto intimo del pilota, il rapporto col padre.
Con lui (ma con tutta la famiglia) un fortissimo legame simbiotico, costellato da sudditanza e rivincite.
Dal bel documentario del 2010 Senna si vedono le immagini dei festeggiamenti nei box della Mc Laren, Ayrton scorge la figura di suo padre ed esclama un “Papà!”, quasi una tenera richiesta di attenzione e coccole che ogni figlio maschio si aspetta di ricevere dal proprio genitore.
Come dire, me li puoi fare i complimenti, me li sono meritati oggi, guarda in che condizioni ho vinto.
Il signor Da Silva (Senna è il cognome materno) accorre al capezzale del figlio ma fa appena in tempo a sfiorarlo che questi gli intima di toccarlo delicatamente ed il meno possibile.
Ora è il figlio che dice al padre cosa deve fare.
Cosa e come.
Senna quel giorno di fine marzo allontanò l’incubo della gara di casa e si affrancò da una subordinazione nei confronti del papà, anche se gli eventi di qualche anno dopo dimostreranno che emanciparsi totalmente dalla sua famiglia gli risulterà impossibile.

Rimaneva da alzare la Coppa per dare alla giornata il suggello definitivo, senza quel gesto sarebbe stata quasi una vittoria di Pirro (per favore, nessuna battuta sul pilota romano).
Senna era allo spasmo ma richiamò all’ordine le pochissime energie ancora sparse per il suo corpo per alzarla al cielo, un rito doveroso per celebrare la sua vittoriosa battaglia combattuta al solito non solo coi rivali in pista.
Senna gongolava per essere stato spolpato nel fisico e nell’anima dal suo paese, dal suo popolo.
Per avere conseguito una vittoria nel dolore.
Una vittoria del dolore.
Una vittoria dal sapore indimenticabile.

 

 

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Semplicemente Ayrton/L’importanza di partire primi

10 Ott

Quattro anni del blog ed un solo articolo su di LUI, questo https://shiatsu77.me/2014/08/28/oltre-il-mito-oltre-la-leggenda/.
Non ho spiegazioni, né scuse, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Ognuno di noi ha le proprie perversioni.
Piccole o grandi.
Non sempre confessabili.
Ad esempio a chi ama ancora guardare le qualifiche della Formula Uno consiglio di farlo seguendo i precetti del nicodemismo.
Diversamente – ostentando questa (in)salubre passione – potrebbero arrivare a casa loro delle ambulanze a prelevarli in maniera coatta.
Anch’io lo facevo (seguire le qualifiche intendo, non farmi prelevare dall’ambulanza), ma il contesto era un tantino diverso per due semplici ragioni: la Formula Uno era tutto fuorché quella soporifera processione di auto tele-guidate dai box che è oggi; ed in pista correva Ayrton Senna.

Il pilota Senna, contrariamente a quanto il suo strabordante talento induca a credere, aveva parecchie fissazioni.
Per la vittoria, lo abbiamo già visto, ma qui più che di mania siamo nell’ambito della ragione di vita.
Per la messa a punto della vettura, dove risultava più pignolo del più nerd dei suoi ingegneri anglo-giapponesi.
Non amava i giri veloci (solo 19 in carriera, un’inezia se pensiamo ai 2931 giri disputati al comando o alle sue furiose rimonte), perché sosteneva che alterassero il consumo delle gomme e quindi l’equilibrio della vettura.
Poi c’erano le pole position.
Potremmo limitarci a dire che in tutto saranno 65, record ancora imbattuto in relazioni ai Gran Premi disputati.
Ma anche il più altisonante numero necessita della prosa per dare di sé un senso compiuto.
Ed in questa rubrica-viaggio che ci sta conducendo ad Ayrton Senna, la tappa targata pole è uno di quei passaggi obbligati se si vuole arrivare alla meta.

Impossibile non scorgere un rapporto simbiotico fra il tre volte iridato e le prove.
Le pole position hanno contribuito a generare l’agiografia di Ayrton ed in cambio il fuoriclasse brasiliano ha elevato le qualifiche da sottoposte del GP ad autentica gara nella gara.
Si può affermare che la corsa durasse due giorni con il pathos equamente distribuito nel fine settimana.
Senna catalizzava talmente l’attenzione che gli ultimi dieci minuti di prove erano la quintessenza della suspense dove l’incognita era che tempo stratosferico avrebbe stampato Senna.
“Sta scendendo in pista Ayrton Senna!”, annunciava solenne il telecronista col tono di quello che sapeva di assistere a qualcosa da ricordare a lungo e questo semplice richiamo era foriero di un nugolo di emozioni che proiettavano il battito cardiaco del telespettatore abbondantemente sopra quota cento.
Sperare, soffrire e godere – in quegli attimi eterni dove le frazioni di tempo sono messe sotto il microscopio – era una dimostrazione di osmotico amore nei confronti del pilota brasiliano.
Al termine delle qualifiche i tifosi erano provati almeno quanto il loro idolo.
Anche chi non ha la passione della logica o della matematica capirà che in una pista partire davanti a tutti qualche vantaggio lo comporta.
Ma il logos che guidava il Senna-pensiero andava oltre.
E non si limitava ad una collezione, come aveva sentenziato Prost in un acido dileggio.
Dobbiamo partire dall’assunto che quando parliamo del campione di San Paolo la ricerca della perfezione perdeva ogni traccia di velleità per trasformarsi nella massima espressione del tangibile.
La pole per Senna era l’esasperazione della velocità.
E la sua conquista un piacevole obbligo.
Il giro secco era l’occasione – o forse solo il pretesto – per dimostrare la propria superiorità e per sbattere in faccia agli avversari il mix di genio e coraggio, costringendoli a confrontarlo col proprio.
I distacchi che infliggeva ai rivali (arrivava a rifilare quasi due secondi al migliore dei suoi colleghi) erano il plusvalore di considerazione fra sé e gli altri.
Gli occhi intensi ed espressivi e lo sguardo profondo una volta abbassata la visiera si tingevano di un’inaudita ferocia agonistica per annichilire l’avversario già dal sabato, mostrandogli – alla stregua dei denti di una belva- la sua stupefacente capacità di oltrepassare il limite e viverci serenamente.
Solo i grandissimi piloti possono annoverare nelle loro strategie il logorio mentale dell’avversario.
E solo i grandissimi uomini possono rischiare la propria vita per salvare quella di un altro pilota.
Per esempio quella di Eric Comas durante prove del GP di Spa Francorchamps del 1992.
Senna durante le qualifiche aveva un alleato, il piacere di guidare (alla sua maniera).
E due rivali, se stesso ed il limite.
A turno si serviva di uno dei due per battere l’altro, in un sofisticato equilibrio fra sfida e motivazione da far impallidire parecchie branche di filosofia.
Un tipo per niente competitivo Senna, eh?
Ma scevro da qualsiasi accusa di presunzione poiché il primo ad essere nel suo mirino era proprio lui stesso ed alle smargiassate preferiva le batoste (anche umilianti) nel suo terreno ideale, la pista.
La spasmodica e sistematica ricerca della pole raggiungevano il parossismo nel guanto di sfida lanciato al tempo: Senna voleva essere più veloce persino di lui, voleva che fosse il tempo ad inseguirlo e voleva mettergli il fiatone facendosi cronometrare.
E dal televisore tutti abbiamo avuto la sensazione che nei suoi giri veloci in qualifica il concetto spazio-tempo fosse perlomeno opinabile.

La leggenda di Ayrton Senna da Silva passa anche per le sue pole position, 65 capolavori che racchiudevano la perfezione, la follia, l’abnegazione e l’impossibile con la gente rapita dal suo rincorrere qualcosa di talmente veloce che solo lui poteva.
Tanto Senna inseguiva quella cosa e tanto quella cosa lo guidava.

 

 

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Semplicemente Ayrton/Vincere perdendo

22 Ago

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Non ho spiegazioni, né scuse, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Ci sono degli sportivi che anche nelle vittorie non riescono a salire completamente sulla vetta.
Altri che nelle sconfitte escono comunque vincitori.
Ad Ayrton Senna non bastava semplicemente vincere.
Perché comunque c’è sempre un vincitore e lui non voleva essere confuso con uno dei tanti.
Parimenti, quando non riusciva a centrare il suo vitale obiettivo Ayrton non finiva certo nel girone degli sconfitti.
Nossignore.
Lui anche in quelle occasioni brillava di luce propria e la sua iconografia splendeva come e più di prima.

Nelle corse automobilistiche la macchina ha sempre influito.
Ma in quei primi anni Novanta si iniziava a percepire che avrebbe scalzato il pilota nel ruolo del più influente dei due.
Nel 1993 anche l’intelligence francese avrebbero intuito a chi sarebbe andato il titolo mondiale, cioè al loro connazionale Alain Prost.
Lo sapeva ovviamente prima di tutti Senna, che veniva da una stagione tribolata.
Nel ’92 infatti la Williams-Renault con le sospensioni attive aveva palesato una superiorità imbarazzante (invero già vista nel finale della stagione 1991), mentre la Mc Laren dopo anni di dominio si ritrovava tecnologicamente indietro.
Un esempio emblematico: il cambio con comandi al volante arriverà solo a stagione inoltrata.
Non bastassero queste nefaste premesse pure l’affidabilità faceva cilecca: rotture a go go e Ayrton, con ancora il numero 1 sul musetto, chiuse al 4° posto in campionato.
La Honda, che alla monoposto inglese forniva da tempo i motori, si ritirerà dal circus iridato proprio alla fine di quella stagione e lascerà in braghe di tela la scuderia di Woking.
Senna fece carte false in inverno per andare alla corte di Frank Williams, ma quel volpone di Prost nell’anno sabbatico che si era preso, aveva trovato il tempo di scrivere anche i dettagli del suo ultimo matrimonio in carriera (quello con la Williams, appunto).
Non in senso metaforico, li scrisse proprio.
O comunque li dettò.
La clausola c’era, bella chiara ed era il classico aut aut: Ayrton Senna non potrà sedere sulla stessa monoposto.
Prost in vita sua non ha mai provato l’ebrezza di essere ingenuo, nemmeno il terzo giorno d’asilo.
Sapeva che a parità di macchina col brasiliano avrebbe vinto il suo quarto Mondiale solo sulla pista Polistil.
Senna – uno con la competitivite dieci volte i valori di riferimento – non la prese bene.
No, non è vero.
Si incazzò proprio come una bestia.
Girò perfino la voce di un suo ritiro, alla fine si accordò col team manager Ron Dennis per un singolare contratto a gettone: alla fine di ogni gara incassava l’obolo e decideva se correre quella successiva.
Senna si ritrovava un motore a soli 8 cilindri con meno cavalli nel recinto, la consapevolezza di un mezzo palesemente inferiore e sulla miglior macchina del lotto vedeva seduto il rivale di una vita Alain Prost, che lo aveva boicottato impedendogli di esserci lui, su quella macchina.
Senna in quel 1993 diede letteralmente spettacolo.

Il giorno della gara a Donington Park pioveva.
E forte.
Nelle prove sull’aciutto Senna (il re della pole) non era andato oltre la quarta posizione.
Ma quell’acqua aveva un sapore mitologico.
Ed un significato di giustizia divina.
Aveva lavato (e levato) via i favoritismi mettendo a nudo le vere qualità degli eroi in pista.
Pronti via, e Senna perdette una posizione ma quello fu il classico giorno dell’offerta speciale: una lectio magistralis assolutamente gratuita (ed indigesta) per gli altri piloti
Era quinto, dicevamo.
E li sorpassò tutti quelli che gli erano sventuratamente davanti.
Prima il giovane Schumacher, poi Wendlinger, dopo fu la volta di Damon Hill ed infine il caro nemico Prost.
Filotto.
Scusate, l’emozione mi ha fatto omettere un particolare.
Li sorpassò tutti, sì.
Ma nel corso del primo giro!
Senna quel giorno correva sulla stessa pista dei suoi rivali ma in un’altra dimensione.
Quello che agli altri opprimeva a lui galvanizzava.
Tutti erano frustrati, lui esaltato.
Per gli avversari era un calvario, per lui un trionfo.
Soave, maestoso, danzava sulla pioggia ad un ritmo forsennato.
Pare che la fisica quel giorno abbia avuto diverse crisi d’identità ed un tentativo di conversione.
Entusiasmante come vedere sfrecciare Senna sul bagnato c’era solo vedere Senna sfrecciare sul bagnato.
Direte, ma un pilota cosa può fare più di così?
Ve lo dico io, sono qua apposta.
Più di così un pilota può doppiare tutti gli altri eccetto Hill che arriverà secondo al traguardo dopo solo 1’23” e 199 millesimi.
Non si può incoronare chi è già re ma nemmeno impedire alla gloria di aggiungersi ancora al più valoroso.
Senna ricevette quel dì un’ulteriore investitura chiamata leggenda assoluta, mentre Prost subì l’onta del doppiaggio dopo essere andato in pellegrinaggio più volte ai box (cambierà le gomme sette volte).
Non avendone abbastanza dell’umiliazione in pista il francese nella conferenza stampa post gara osò lamentarsi dei problemi alla vettura adducendo ad essi la sua gara incolore (terzo, ma con poco da festeggiare).
Serafica la risposta del campione di San Paolo che lo gelò “Vuoi fare cambio con la mia Mc Laren?Io ci sto!”
Mancava solo che gli mimasse il gesto di consegnargli le chiavi…
L’esperto consiglia di andare su You Tube e di riguardare quel primo giro del GP d’Europa.
E già che ci siete mettete un cartello sulla porta con scritto “Pregasi non disturbare,sto contemplando un’opera d’arte”.

Ne seguiranno altre di vittorie in quella stagione, il bottino salirà a cinque, oltre a qualche ritiro quando era a giocarsela.
Nel Mondiale finì dietro l’iridato Prost e mai un secondo posto fu più vittoria di quello.
In quell’annata Senna era un uomo contrariato ma sereno allo stesso tempo, scevro da pressioni ed obblighi.
A suo modo e sempre con la proverbiale profondità, se ne fotteva di tutto e tutti, quasi a dire “Non lo vincerò il Titolo, ma vi faccio vedere cosa sa fare Ayrton Senna”.
Riuscì a vergare un Mondiale senza che il suo nome apparisse nell’albo d’oro.
A cotanta potenza arrivarono le sue imprese in quell’annata.
Affrancato, obtorto collo, dall’imperativo di essere l’uomo da battere è come se Ayrton fosse tornato a rivivere le stagioni alla Lotus ma con un’età più matura.
Sogno proibito di molti quello di gironzolare fra le varie epoche compilando personalmente la carta d’identità.
Chi è avvezzo a sfrecciare oltre i trecento all’ora probabilmente è ritenuto più consono per ricevere le chiavi della macchina del tempo.
Non sappiamo se quelle chiavi a Senna gliele avesse consegnate il suo amato Dio, il destino, il caso, o se erano incustodite nel box.
Certo, dilatando la vita del fuoriclasse brasiliano e mettendola in sequenza come fosse un film, quel 1993 suona come la fine di qualcosa, come un’inversione di tendenza che Senna doveva cercare o semplicemente subire.
Come se il fiume nel quale Ayrton si era bagnato nelle sue stagioni alla Mc Laren non potesse più farlo.
Non alla stessa maniera.
Un giro di boa ineluttabile per proiettare il tre volte campione del Mondo in una nuova dimensione, verso una corrente altrettanto pescosa, i cui parametri stavano però mutando.
Era sempre una spanna sopra tutti ma stavolta il suo talento gli aveva fatto conoscere un’essenza diversa della vittoria.
A lui, che viveva per quella.
Più leggendaria, meno materiale.
Chissà se il mistico e trascendente Ayrton prima di tutti seppe interpretare questi prodromi.
Perché le coincidenze quando parliamo di Senna hanno meno credibilità del solito.
Lo abbiamo capito, fu una delle stagione più insolite per Senna che si chiuderà nell’ultima gara con l’accoppiata pole position-vittoria – il marchio di fabbrica (o un altro vaticinio, saprete già il perché) – seguite poi dal passaggio invernale alla agognata Williams (Prost si ritirerà) in vista del 1994.
L’anno della sua morte.

 

 

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Semplicemente Ayrton/Mondiale alla Senna

28 Lug

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Ne saranno demoliti parecchi di luoghi comuni, di credenze e di consuetudini da Ayrton Senna nella sua carriera.
La vittoria, ad esempio.
No, siamo lontani dall’approccio decoubertiano.
Senna al riguardo aveva le idee piuttosto chiare: “La cosa importante è vincere tutto, sempre”.
Ancora: “Io voglio vincere sempre. L’opinione secondo cui la cosa importante è competere è un assurdità”.
La rivoluzione fu il come.
Sempre il pilota di San Paolo: “Ho bisogno di fare qualcosa di speciale. Ogni anno qualcuno vince un titolo. Io voglio fare di più.”
Una frase del genere poteva essere pronunciata solo da uno squilibrato o da un genio.

Torniamo al 1988, poi capiremo.
La Mc Laren MP4/4 è un proiettile, Senna e Prost due cannibali che ne faranno 15 su 16 sia nelle pole sia nelle vittorie.
L’unica gara in bianco dei due permetterà alle Ferrari di Berger ed Alboreto di trionfare a Monza a meno di un anno dalla morte di Enzo Ferrari.
Digressione doverosa.
Alla sua prima stagione alla corte di Ron Dennis il talento brasiliano fa vedere cose aliene nel condurre la vettura.
I primi ad esserne spaventati, prima che colpiti, sono quelli del suo team.
Senna in qualifica è una furia, a fine anno le pole position saranno 13.
Sul giro secco infligge distacchi che talora sono quelli di un intero GP.
Nel Gran Premio cittadino di Monaco in qualifica un Ayrton Senna in totale stato di grazia (cit.) rifila quasi un secondo e mezzo (sic) al compagno di squadra.
In quella gara arriva ad avere un vantaggio di 55 secondi sul Professore prima che un calo di concentrazione e la voglia di umiliare il francese lo facciano picchiare al giro 67.
Se in qualifica Senna non ha rivali il campionato è invece equilibrato, complici alcuni guai tecnici occorsi al brasiliano.
E non dimentichiamolo, grazie anche al valore di Prost.
Ma quando vince (cioè spesso), Senna stravince e annienta gli avversari.
C’è ancora la regola degli scarti, meccanismo più complicato e cervellotico di una proposta di legge elettorale, ed Ayrton arriva al GP di Suzuka con meno punti di Alain ma col primo match ball della stagione:se vince la corsa, il titolo è suo.
Senna parte dalla pole, Prost al suo fianco.
Tutto pronto, semaforo verde, ma la monoposto n.12 incespica e sembra spegnersi.
Ciao Ayrton, il sogno svanisce.
Il tuo Mondiale non lo vincerai oggi, forse un’altra volta, chissà.
Ma non sicuramente oggi.
Mettiti l’animo in pace, le corse sono fatte così.
Senna alza le braccia per segnalare la sua resa.
Poi la leggera pendenza di Suzuka fa riavviare il motore.
Ma solo per un attimo, poi di nuovo il buio.
Più lunghi da raccontarli che da viverli questi istanti in cui l’anima scopre i sentimenti più distanti fra loro.
Alla partenza il cuore di un pilota è già martoriato da 180 battiti al minuto, il suo è pure salito sulle montagne russe di emozioni lancinanti.
Non si sa come, ma Senna riesce finalmente a partire.
Il tempo di lasciare calmare il cervello (riporto le sue parole) ed il brasiliano inizia una feroce rincorsa.
Non è una semplice rimonta.
E’ la dimostrazione della sua superiorità.
E’ l’istantanea della sua voglia di vincere.
E’ una metafora della sua vita.
Quelle di Senna, lo avrete capito, sono favole epiche più che semplici gare.
E poteva mancare l’acqua?
Certo che no, arriva anche quella.
La fuga di Prost termina al 28° giro quando Ayrton lo sorpassa ad una velocità spropositata ed al suo cospetto il Professore sembra essere fermo.
Dopodiché Senna diventa imprendibile per tutti tranne che per le telecamere, che ce lo immortalano in festa per il suo primo Mondiale.

Dirà che a Suzuka avvertì la presenza di Dio, che fu lui a guidarlo alla vittoria.
Terrene o divine, Senna aveva accesso a risorse inaccessibili ai più.
Senna non voleva vincere in maniera normale.
Senna non poteva vincere in maniera normale.
Gli eventi glielo avrebbero impedito
Gli stessi eventi che se fossero capitati a qualsiasi altro pilota, gli avrebbero impedito semplicemente di vincere.
Eccola la differenza fra Ayrton e gli altri.
Lui è riuscito a scolpirsi il nome nella pietra combattendo con campionissimi del calibro di Piquet, Mansell e Prost.
Il talento, la classe cristallina, le qualità fuori dal comune.
Certo, tutto vero.
Ma Senna era dotato di una indomita forza di volontà, la sua cura per i particolari era più giapponese che carioca.
Era preciso fino alla pignoleria.
Avremo modo di scoprire che risulterà impossibile spacchettare le qualità (tecniche ed umane) di questo pilota meraviglioso.
Di più, lui seppe unire gli opposti, facendoli non solo coesistere, ma addirittura esaltare in questa alchimia apparentemente impossibile.
Una magia.
Genio e regolatezza.
Ricordate le sue parole?
“Ho bisogno di fare qualcosa di speciale. Ogni anno qualcuno vince un titolo. Io voglio fare di più.”
Questo sarà solo l’inizio.

 

 

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Semplicemente Ayrton/Genesi di una stella

26 Lug

Quattro anni del blog ed un solo articolo su di LUI, questo https://shiatsu77.me/2014/08/28/oltre-il-mito-oltre-la-leggenda/.
Non ho spiegazioni, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Sì, sono d’accordo con voi, paragonare fra loro dei piloti di epoche differenti può risultare tanto fuorviante quanto infantile.
Difatti i confronti sono spesso appannaggio delle trasmissioni sportive e delle riviste specializzate.
L’importante però è sapere che a metà degli Anni Ottanta le Formula Uno erano degli allegri mostri i cui motori turbo (integralisti interpreti della modalità “O tutto o niente”) superavano abbondantemente i mille cavalli.
I 1.000 cavalli, se vi fa più effetto.
Tutti violentissimi, dal primo all’ultima stilla.
Il controllo della trazione era un orpello riservato ai film di fantascienza, le gomme invece erano rigorosamente quelle di trent’anni fa.
Dei giornalisti chiesero, in momenti diversi, a due ingegneri (rispettivamente della BMW e dell’Honda) se veramente nelle qualifiche le potenze dei motori arrivassero a 1.500 cavalli.
La domanda era retorica, le risposte identiche e comicamente disarmanti nella loro appassionata sincerità “Ah, può essere…Solo che il nostro banco a rulli ne misura solo fino a 1.300, di cavalli…”
Per guidarle non bastava la vocazione del pilota, servivano anche tracce di eroismo.
Giusto per contestualizzare.

Nessun romanziere, sceneggiatore o regista avrebbe potuto inventarsi una storia così perfetta per raccontare la genesi di una stella come quella che il destino fece vivere il 3 giugno 1984 ad Ayrton Senna da Silva.
Tutto era al posto giusto, sincronizzato, in una inappuntabile successione: l’ambientazione, le condizioni, il contesto, il rivale e gli strascichi.
Tutti prodromi di quello che avverrà da lì in avanti.
Cerchi che si apriranno, si ingrandiranno, si chiuderanno per incrociarne altri e poi ripartire di nuovo in un tourbillon veloce come le monoposto.
Sono le corse, una parentesi della vita.
Gli eventi sono casuali solo per chi non vuole vederci nulla di più.

Torniamoci, a quel giorno.
Non ve l’ho detto, siamo nel circuito cittadino di Montecarlo e sul Principato dal mattino si è abbattuto un forte temporale.
Acquazzone che non si interromperà per tutta la gara.
I piloti sono consci dei rischi che corrono e si percepisce: preoccupati, tesi, nessuno ha voglia di aggiungere del rischio ad un Gp che ne possiede in abbondanza di suo già in condizioni di asciutto, figuriamoci in questa risaia.
Ed infatti nonostante i piloti seguano pedissequamente le raccomandazioni della mamma (corri, ma non troppo) ogni tanto qualcuno viene inesorabilmente falcidiato dall’acqua.
Chi da solo (ad esempio Mansell e Lauda), chi in compagnia (Warwick, De Cesaris e Tambay).
Dalle retrovie si fa sempre più notare il giovane Senna.
Un esordio in Formula Uno vale anche la sua modesta Toleman.
Nei primi cinque Gran Premi due buonissimi sesti posti per il promettente ragazzo di San Paolo.
Incurante (e non potrebbe fare diversamente) del mezzo che sta guidando Senna getta sul Mondiale di Formula Uno tutto il suo impeto e la sua voglia di emergere.
Seconda sola alla sua velocità fra i cordoli.
Ayrton sul bagnato è già un fenomeno e dopo qualche giro a remare nella pista capisce che in quelle condizioni l’auto deve essere il più guidabile possibile, la potenza (anche se la Toleman non esagera…) in condizioni simili è più dannosa che inutile.
Cosa fa?
Abbassa al minimo la pressione del turbo poi tutto viene da sè perché il limite per alcuni piloti è una chimera irraggiungibile, mentre per lui un obiettivo, un compagno di vita ed uno stimolo.
Inizia a girare in tempi fantastici, tant’è che non impiega molto a giungere fino al secondo posto a meno di due secondi dal capofila Alain Prost.
Il ventiquattrenne brasiliano assomiglia ad una belva che sta per azzannare la sua preda,niente di personale (per il momento), solo istinto.
E vista la differenza di passo fra i due il sorpasso sembra solo questione di giri.
Ma non arriva.
Perché i commissari al 32° giro espongono la bandiera rossa (giustamente?,favorendo Prost?) e gara finita con quelle posizioni: vince il francese ed il rookie Senna è secondo.
Il brasiliano si sbraccia come un tarantolato, forse esulta per l’insperato risultato, forse è incavolato perché fiutava la possibilità di salire sul gradino più alto del podio.
Delle due decisamente la seconda.
“Qui si parla francese ed è meglio che vinca un francese.” dirà il pilota della Toleman a fine gara.
La voglia di vincere si scontra da subito con le gerarchie e le leggi della politicissima Formula Uno.
Sarà la prima di una lunga serie, uno dei suoi tanti stilemi.
Senna è un predestinato, e il fato – per eccesso di zelo – ha voluto dargli un’ulteriore conferma in una sorta di caccia al tesoro dove probabilmente la mancata vittoria rientra nel disegno: per mostrargli che nelle gare essere il più forte non sempre basta, o comunque non basterà sempre a lui.
Ecco perché le sue vittorie non saranno mai vittorie normali (per quanto possa essere normale una vittoria).
Senna lo sapeva già, ed ora il Mondo intero: è nata una stella.
E da quel giorno lo capiranno anche gli avversari.

 

 

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Oltre il mito, oltre la leggenda

28 Ago

Diceva Lucio Dalla: a chiunque voi chiediate cosa stesse facendo il pomeriggio del 01/05/1994 questi vi saprà rispondere con precisione.
Perché quel giorno morì a 34 anni (compiuti da poco) Ayrton da Silva, meglio conosciuto come Ayrton Senna.

In Senna sapevano convivere due fuoriclasse in perfetta simbiosi fra loro: l’uomo ed il pilota.
Quella di unire doti apparentemente in antitesi (o comunque recalcitranti fra loro) sarà una costante della sua vita e della sua carriera.
Aveva qualità talmente adamantine che la genialità pareva aver scelto lui per fare bella mostra di sé nella sua forma più pura.
Genio e regolatezza: in nessun altro pilota il talento fu più a così stretto contatto con la meticolosità.
Dopo una sonora sconfitta sull’acqua patita coi kart decise di allenarsi intere giornate sulla pista bagnata: su quella superficie diventerà letteralmente imbattibile.
Avete mai visto un brasiliano essere l’idolo dei meticolosi ingegneri giapponesi?
Ebbene sì.
Che fosse un predestinato lo si era capito da quell’esordio dirompente a Montecarlo, dove il fato – in una delle sue più brillanti intuizioni – gli farà incrociare Alain Prost e con un anelito sembrava avesse detto loro “Che il duello abbia inizio”.
Ayrton combatteva contro diversi rivali: gli altri piloti in primis, indubbiamente se stesso, ma anche la macchina e la fisica (non a caso si batterà contro la svilente elettronica che appiattisce i valori in gioco come in una Play Station).
Il suo inimitabile stile di guida (si può solo ammirare, in questo caso le immagini surclassano le parole) era pregno del rapporto primordiale fra l’uomo e la velocità: da bordo pista erano udibili le sue urla prima delle staccate più violente.
Ovviamente in punti dove osava farle solo lui.
Il fuoriclasse brasiliano dava sempre la sensazione di potersi inventare qualcosa in qualsiasi momento (“Non esiste una curva dove non si possa sorpassare”), quasi captasse sensazioni metafisiche.
Le sue non erano mai vittorie banali, erano la sublimazione delle stesse.
Il pathos che sprigionava Ayrton Senna nelle prove raggiungeva il suo parossismo a 5 minuti dalla chiusura.
Con lui in pista le qualifiche erano una gara nella gara (da vincere anche quella, of course).
E’ stata la sua smodata passione per le competizioni a fargli conoscere il limite: prima un obiettivo da raggiungere poi un compagno col quale convivere per un reciproco innalzamento di valori, un volano dello stimolo.

Il valore di un pilota non dipende dal numero di Mondiali vinti.
Dipende da come li vinci e contro chi li vinci (“Ho bisogno di fare qualcosa di speciale. Ogni anno qualcuno vince un titolo. Io voglio fare di più”).
Quella era la generazione di Piquet, di Prost e di Mansell.
E di auto dannatamente brutali.
Rivedere una camera card dell’epoca aiuta a capire che razza di mostri fossero da domare le monoposto di allora.
Schumacher, dall’alto dei suoi 7 titoli iridati (lungi da me da scatenare risse da Far West fra tifosi), quando ha incontrato piloti validi con auto affidabili (Hakkinen, Villeneuve, Alonso) ha dovuto alzare bandiera bianca pure lui.
Il campione di San Paolo usciva (spesso) vincitore anche nelle sconfitte (a Suzuka ’89, quando a fermarlo furono i giudici, cioè la Fia di Balestre) o nel ’93 quando su una Mc Laren imbarazzante ha innalzato il significato etimologico della parola capolavoro.
Asserire che con la sua morte sia finita anche la F1 può risultare eccessivo.
Affermare che un personaggio come lui non calcherà più il paddock è quantomeno sensato.
Avvalorando (forse) la prima ipotesi.
Era il più bravo ma è stato per lungo tempo anche il più osteggiato dal Palazzo: il già citato Jean-Marie Balestre (l’allora Presidente della Federazione) molto simpaticamente gli tolse un Mondiale per darlo all’amico Prost francese come lui e non smise di ostacolarlo quando poteva (sempre a Suzuka invertì la partenza dalla pole, fomentando l’altra storica collisione col pilota francese).
Giustizia e meritocrazia infatti erano fra i capisaldi del Senna-pensiero.
Capì subito (a proprie spese) cosa fossero i giochi di potere nella F.1, ambiente nel quale aveva pochi amici(Gherard Berger, il medico Sid Watkins e il team manager Ron Dennis) e che certo non gli si confaceva.
Proprio non digeriva, il tre volte campione del Mondo, la politica nello sport e lo sport della politica (“La Formula uno è politica e denaro.Quando non sei ancora importante devi affrontare questo tipo di cose”).
Non esiste un grande campione senza una grande rivalità.
Il suo rapporto Alain Prost era farcito di acredine, di incompatibilità, di rispetto sportivo (poi svanito anche quello), di risentimento e di odio.
Ma di Alain il campione brasiliano aveva bisogno.
Anche se un giorno, alla domanda su chi fosse stato il suo più grande rivale – da refrattario alla banalità quale era – Senna se ne uscì col nome del semisconosciuto Terry Fullerton, suo compagno di squadra ai tempi del kart prima di passare in F1.
Motivò la risposta affermando che quelle sfide erano pura guida, pura competizione, puro divertimento.
Che fosse anche un affronto a Prost, invece, non c’era bisogno che lo dicesse.
Ayrton era dipendente dalla sfida, viveva per vincere ma la semplice vittoria non gli bastava, voleva di più.
Ad una dolcezza da tutti riconosciuta affiancava una cattiveria agonistica spietata (“A volte le gare finiscono subito dopo il via e a volte a sei giri dalla fine…”).
Era sfacciatamente cinico (spesso il suo obiettivo era umiliare Prost), permaloso – credeva fortemente in quello che faceva – ma nelle sue vendette c’era un senso di giustizia per un torto subito.
Un animale da pista che però nel bel mezzo di un giro in qualifica (la sua specialità) seppe fermarsi, scendere dalla vettura e soccorrere il pilota Erik Comas (vittima di un pauroso incidente) salvandogli la vita.
E rischiando la propria.
La personalità del pilota brasiliano è un esempio didascalico dello scontro apollineo-dionisiaco narrato da Nietzsche.

Aveva un rapporto di profondo amore con la propria terra, che ripagava con l’orgoglio di rappresentarla da numero uno.
Il Brasile, paese dalle mille sfaccettature che più contraddizione non si può.
Si sentiva, Senna, in dovere di fare qualcosa per la sua nazione, per i poveri, per i bambini soprattutto, ma senza quell’ostentazione che rende quei poveri – offendendoli – ancora più poveri (“Non potrai mai cambiare il mondo da solo. Però puoi dare il tuo contributo per cambiarne un pezzetto. Quello che faccio davvero io per la povertà non lo dirò mai. La F1 è ben misera cosa in confronto a questa tragedia”).
Sapeva benissimo di essere il pilota più bravo ed assurgere ulteriormente quando già l’acme pareva raggiunto lo rendeva vivo.
Anche l’uomo-Ayrton era al centro dei suoi pensieri, non poteva esserci l’uno (l’uomo appunto) senza l’altro (il campione).
Legatissimo alla propria famiglia, non rinunciava alla bramosia, aveva una proprietà di linguaggio e una comunicativa mai visti prima in un pilota che strizzavano l’occhio alla filosofia.
Estoril ’85 (la prima vittoria), Suzuka ’88 (dal 14° al 1° posto che valse il primo iride) e Interlagos ’91 (prima vittoria in casa, le urla nel casco scolpite nella memoria e la Coppa alzata a fatica) sono esempi di misticismo nei quali dichiarò di aver avvertito la presenza di Dio.
Non occorre essere un seguace della fisiognomica (presente!) per intuire la personalità di Ayrton da due particolari del suo viso: il sorriso (dolce, quasi imbarazzato, che esplodeva di rado come per preservare una cosa preziosa) e gli occhi (caldi,profondi, ipnotici).
In apparenza tristi, forse per chi associa il pensare alla malinconia.
Felicità e pensiero possono convivere serenamente senza fare a cazzotti.
(“Se una persona non ha più sogni, non ha più alcuna ragione di vivere.Sognare è necessario,anche se nel sogno va intravista la realtà.Per me è uno dei principi di vita”).
A chi lo dipingeva come un folle kamikaze che in nome di Dio si sentiva immortale lui rispondeva che pensava anche alla morte, ma sognava la vita.
Si è sempre battuto strenuamente per migliorare la sicurezza dei piloti, consapevole che in un secondo ti può cambiar la vita (e così sarà).
Era animato da una profonda fede, ma lo potremmo definire più spirituale che religioso, anche nelle pieghe ad libidum (“Se nel ’94 avrò la macchina migliore è anche un diritto che mi sono conquistato”).

Una citazione che suona oggi quanto mai tetra.
Perché si deve per forza tornare alle immagini di quel maledetto fine settimana, toccanti ogni volta che le si riguarda.
Anzi peggio, strazianti proprio perché si conosce l’epilogo.
Mai visto Senna così turbato come ad Imola, in un Gran Premio dai tanti segnali (incidenti a ripetizione, Ratzenberger morto il sabato) e coincidenze (Ayrton che per la prima volta al via è nell’abitacolo senza il casco infilato), con la stessa dinamica dell’incidente che sembra avvalorare la tesi del disegno ultraterreno (a seconda in cosa ognuno creda).
Qualcuno – ricostruendo gli ultimi giorni della sua vita – assicura che Ayrton sapesse di andare incontro alla morte e quindi – per un credente come lui – incontro a Dio.
Senna rientra in quel novero di personaggi che parevano aver scritto – da soli o dietro l’influsso di qualcuno – il copione della propria vita, inserendo volutamente delle difficoltà per recitare meglio la propria parte, elevarsi e distinguersi dagli altri.
E’ morto giovane, in gara, dove era primo, ovvero il destino – fortemente cercato – della sua vita.
Era già mito e leggenda, è andato oltre tutto ciò.
Ci sarebbe andato comunque.

Articoli della rubrica Semplicemente Ayrton:

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