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Semplicemente Ayrton/Vincere perdendo

22 Ago

Quattro anni del blog ed un solo articolo su di LUI, questo https://shiatsu77.me/2014/08/28/oltre-il-mito-oltre-la-leggenda/.
Non ho spiegazioni, né scuse, solo un pò di vergogna ed un rimedio: la rubrica Semplicemente Ayrton.

Ci sono degli sportivi che anche nelle vittorie non riescono a salire completamente sulla vetta.
Altri che nelle sconfitte escono comunque vincitori.
Ad Ayrton Senna non bastava semplicemente vincere.
Perché comunque c’è sempre un vincitore e lui non voleva essere confuso con uno dei tanti.
Parimenti, quando non riusciva a centrare il suo vitale obiettivo Ayrton non finiva certo nel girone degli sconfitti.
Nossignore.
Lui anche in quelle occasioni brillava di luce propria e la sua iconografia splendeva come e più di prima.

Nelle corse automobilistiche la macchina ha sempre influito.
Ma in quei primi anni Novanta si iniziava a percepire che avrebbe scalzato il pilota nel ruolo del più influente dei due.
Nel 1993 anche l’intelligence francese avrebbero intuito a chi sarebbe andato il titolo mondiale, cioè al loro connazionale Alain Prost.
Lo sapeva ovviamente prima di tutti Senna, che veniva da una stagione tribolata.
Nel ’92 infatti la Williams-Renault con le sospensioni attive aveva palesato una superiorità imbarazzante (invero già vista nel finale della stagione 1991), mentre la Mc Laren dopo anni di dominio si ritrovava tecnologicamente indietro.
Un esempio emblematico: il cambio con comandi al volante arriverà solo a stagione inoltrata.
Non bastassero queste nefaste premesse pure l’affidabilità faceva cilecca: rotture a go go e Ayrton, con ancora il numero 1 sul musetto, chiuse al 4° posto in campionato.
La Honda, che alla monoposto inglese forniva da tempo i motori, si ritirerà dal circus iridato proprio alla fine di quella stagione e lascerà in braghe di tela la scuderia di Woking.
Senna fece carte false in inverno per andare alla corte di Frank Williams, ma quel volpone di Prost nell’anno sabbatico che si era preso, aveva trovato il tempo di scrivere anche i dettagli del suo ultimo matrimonio in carriera (quello con la Williams, appunto).
Non in senso metaforico, li scrisse proprio.
O comunque li dettò.
La clausola c’era, bella chiara ed era il classico aut aut: Ayrton Senna non potrà sedere sulla stessa monoposto.
Prost in vita sua non ha mai provato l’ebrezza di essere ingenuo, nemmeno il terzo giorno d’asilo.
Sapeva che a parità di macchina col brasiliano avrebbe vinto il suo quarto Mondiale solo sulla pista Polistil.
Senna – uno con la competitivite dieci volte i valori di riferimento – non la prese bene.
No, non è vero.
Si incazzò proprio come una bestia.
Girò perfino la voce di un suo ritiro, alla fine si accordò col team manager Ron Dennis per un singolare contratto a gettone: alla fine di ogni gara incassava l’obolo e decideva se correre quella successiva.
Senna si ritrovava un motore a soli 8 cilindri con meno cavalli nel recinto, la consapevolezza di un mezzo palesemente inferiore e sulla miglior macchina del lotto vedeva seduto il rivale di una vita Alain Prost, che lo aveva boicottato impedendogli di esserci lui, su quella macchina.
Senna in quel 1993 diede letteralmente spettacolo.

Il giorno della gara a Donington Park pioveva.
E forte.
Nelle prove sull’aciutto Senna (il re della pole) non era andato oltre la quarta posizione.
Ma quell’acqua aveva un sapore mitologico.
Ed un significato di giustizia divina.
Aveva lavato (e levato) via i favoritismi mettendo a nudo le vere qualità degli eroi in pista.
Pronti via, e Senna perdette una posizione ma quello fu il classico giorno dell’offerta speciale: una lectio magistralis assolutamente gratuita (ed indigesta) per gli altri piloti
Era quinto, dicevamo.
E li sorpassò tutti quelli che gli erano sventuratamente davanti.
Prima il giovane Schumacher, poi Wendlinger, dopo fu la volta di Damon Hill ed infine il caro nemico Prost.
Filotto.
Scusate, l’emozione mi ha fatto omettere un particolare.
Li sorpassò tutti, sì.
Ma nel corso del primo giro!
Senna quel giorno correva sulla stessa pista dei suoi rivali ma in un’altra dimensione.
Quello che agli altri opprimeva a lui galvanizzava.
Tutti erano frustrati, lui esaltato.
Per gli avversari era un calvario, per lui un trionfo.
Soave, maestoso, danzava sulla pioggia ad un ritmo forsennato.
Pare che la fisica quel giorno abbia avuto diverse crisi d’identità ed un tentativo di conversione.
Entusiasmante come vedere sfrecciare Senna sul bagnato c’era solo vedere Senna sfrecciare sul bagnato.
Direte, ma un pilota cosa può fare più di così?
Ve lo dico io, sono qua apposta.
Più di così un pilota può doppiare tutti gli altri eccetto Hill che arriverà secondo al traguardo dopo solo 1’23” e 199 millesimi.
Non si può incoronare chi è già re ma nemmeno impedire alla gloria di aggiungersi ancora al più valoroso.
Senna ricevette quel dì un’ulteriore investitura chiamata leggenda assoluta, mentre Prost subì l’onta del doppiaggio dopo essere andato in pellegrinaggio più volte ai box (cambierà le gomme sette volte).
Non avendone abbastanza dell’umiliazione in pista il francese nella conferenza stampa post gara osò lamentarsi dei problemi alla vettura adducendo ad essi la sua gara incolore (terzo, ma con poco da festeggiare).
Serafica la risposta del campione di San Paolo che lo gelò “Vuoi fare cambio con la mia Mc Laren?Io ci sto!”
Mancava solo che gli mimasse il gesto di consegnargli le chiavi…
L’esperto consiglia di andare su You Tube e di riguardare quel primo giro del GP d’Europa.
E già che ci siete mettete un cartello sulla porta con scritto “Pregasi non disturbare,sto contemplando un’opera d’arte”.

Ne seguiranno altre di vittorie in quella stagione, il bottino salirà a cinque, oltre a qualche ritiro quando era a giocarsela.
Nel Mondiale finì dietro l’iridato Prost e mai un secondo posto fu più vittoria di quello.
In quell’annata Senna era un uomo contrariato ma sereno allo stesso tempo, scevro da pressioni ed obblighi.
A suo modo e sempre con la proverbiale profondità, se ne fotteva di tutto e tutti, quasi a dire “Non lo vincerò il Titolo, ma vi faccio vedere cosa sa fare Ayrton Senna”.
Riuscì a vergare un Mondiale senza che il suo nome apparisse nell’albo d’oro.
A cotanta potenza arrivarono le sue imprese in quell’annata.
Affrancato, obtorto collo, dall’imperativo di essere l’uomo da battere è come se Ayrton fosse tornato a rivivere le stagioni alla Lotus ma con un’età più matura.
Sogno proibito di molti quello di gironzolare fra le varie epoche compilando personalmente la carta d’identità.
Chi è avvezzo a sfrecciare oltre i trecento all’ora probabilmente è ritenuto più consono per ricevere le chiavi della macchina del tempo.
Non sappiamo se quelle chiavi a Senna gliele avesse consegnate il suo amato Dio, il destino, il caso, o se erano incustodite nel box.
Certo, dilatando la vita del fuoriclasse brasiliano e mettendola in sequenza come fosse un film, quel 1993 suona come la fine di qualcosa, come un’inversione di tendenza che Senna doveva cercare o semplicemente subire.
Come se il fiume nel quale Ayrton si era bagnato nelle sue stagioni alla Mc Laren non potesse più farlo.
Non alla stessa maniera.
Un giro di boa ineluttabile per proiettare il tre volte campione del Mondo in una nuova dimensione, verso una corrente altrettanto pescosa, i cui parametri stavano però mutando.
Era sempre una spanna sopra tutti ma stavolta il suo talento gli aveva fatto conoscere un’essenza diversa della vittoria.
A lui, che viveva per quella.
Più leggendaria, meno materiale.
Chissà se il mistico e trascendente Ayrton prima di tutti seppe interpretare questi prodromi.
Perché le coincidenze quando parliamo di Senna hanno meno credibilità del solito.
Lo abbiamo capito, fu una delle stagione più insolite per Senna che si chiuderà nell’ultima gara con l’accoppiata pole position-vittoria – il marchio di fabbrica (o un altro vaticinio, saprete già il perché) – seguite poi dal passaggio invernale alla agognata Williams (Prost si ritirerà) in vista del 1994.
L’anno della sua morte.

 

 

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Oltre il mito, oltre la leggenda

28 Ago

Diceva Lucio Dalla: a chiunque voi chiediate cosa stesse facendo il pomeriggio del 01/05/1994 questi vi saprà rispondere con precisione.
Perché quel giorno morì a 34 anni (compiuti da poco) Ayrton da Silva, meglio conosciuto come Ayrton Senna.

In Senna sapevano convivere due fuoriclasse in perfetta simbiosi fra loro: l’uomo ed il pilota.
Quella di unire doti apparentemente in antitesi (o comunque recalcitranti fra loro) sarà una costante della sua vita e della sua carriera.
Aveva qualità talmente adamantine che la genialità pareva aver scelto lui per fare bella mostra di sé nella sua forma più pura.
Genio e regolatezza: in nessun altro pilota il talento fu più a così stretto contatto con la meticolosità.
Dopo una sonora sconfitta sull’acqua patita coi kart decise di allenarsi intere giornate sulla pista bagnata: su quella superficie diventerà letteralmente imbattibile.
Avete mai visto un brasiliano essere l’idolo dei meticolosi ingegneri giapponesi?
Ebbene sì.
Che fosse un predestinato lo si era capito da quell’esordio dirompente a Montecarlo, dove il fato – in una delle sue più brillanti intuizioni – gli farà incrociare Alain Prost e con un anelito sembrava avesse detto loro “Che il duello abbia inizio”.
Ayrton combatteva contro diversi rivali: gli altri piloti in primis, indubbiamente se stesso, ma anche la macchina e la fisica (non a caso si batterà contro la svilente elettronica che appiattisce i valori in gioco come in una Play Station).
Il suo inimitabile stile di guida (si può solo ammirare, in questo caso le immagini surclassano le parole) era pregno del rapporto primordiale fra l’uomo e la velocità: da bordo pista erano udibili le sue urla prima delle staccate più violente.
Ovviamente in punti dove osava farle solo lui.
Il fuoriclasse brasiliano dava sempre la sensazione di potersi inventare qualcosa in qualsiasi momento (“Non esiste una curva dove non si possa sorpassare”), quasi captasse sensazioni metafisiche.
Le sue non erano mai vittorie banali, erano la sublimazione delle stesse.
Il pathos che sprigionava Ayrton Senna nelle prove raggiungeva il suo parossismo a 5 minuti dalla chiusura.
Con lui in pista le qualifiche erano una gara nella gara (da vincere anche quella, of course).
E’ stata la sua smodata passione per le competizioni a fargli conoscere il limite: prima un obiettivo da raggiungere poi un compagno col quale convivere per un reciproco innalzamento di valori, un volano dello stimolo.

Il valore di un pilota non dipende dal numero di Mondiali vinti.
Dipende da come li vinci e contro chi li vinci (“Ho bisogno di fare qualcosa di speciale. Ogni anno qualcuno vince un titolo. Io voglio fare di più”).
Quella era la generazione di Piquet, di Prost e di Mansell.
E di auto dannatamente brutali.
Rivedere una camera card dell’epoca aiuta a capire che razza di mostri fossero da domare le monoposto di allora.
Schumacher, dall’alto dei suoi 7 titoli iridati (lungi da me da scatenare risse da Far West fra tifosi), quando ha incontrato piloti validi con auto affidabili (Hakkinen, Villeneuve, Alonso) ha dovuto alzare bandiera bianca pure lui.
Il campione di San Paolo usciva (spesso) vincitore anche nelle sconfitte (a Suzuka ’89, quando a fermarlo furono i giudici, cioè la Fia di Balestre) o nel ’93 quando su una Mc Laren imbarazzante ha innalzato il significato etimologico della parola capolavoro.
Asserire che con la sua morte sia finita anche la F1 può risultare eccessivo.
Affermare che un personaggio come lui non calcherà più il paddock è quantomeno sensato.
Avvalorando (forse) la prima ipotesi.
Era il più bravo ma è stato per lungo tempo anche il più osteggiato dal Palazzo: il già citato Jean-Marie Balestre (l’allora Presidente della Federazione) molto simpaticamente gli tolse un Mondiale per darlo all’amico Prost francese come lui e non smise di ostacolarlo quando poteva (sempre a Suzuka invertì la partenza dalla pole, fomentando l’altra storica collisione col pilota francese).
Giustizia e meritocrazia infatti erano fra i capisaldi del Senna-pensiero.
Capì subito (a proprie spese) cosa fossero i giochi di potere nella F.1, ambiente nel quale aveva pochi amici(Gherard Berger, il medico Sid Watkins e il team manager Ron Dennis) e che certo non gli si confaceva.
Proprio non digeriva, il tre volte campione del Mondo, la politica nello sport e lo sport della politica (“La Formula uno è politica e denaro.Quando non sei ancora importante devi affrontare questo tipo di cose”).
Non esiste un grande campione senza una grande rivalità.
Il suo rapporto Alain Prost era farcito di acredine, di incompatibilità, di rispetto sportivo (poi svanito anche quello), di risentimento e di odio.
Ma di Alain il campione brasiliano aveva bisogno.
Anche se un giorno, alla domanda su chi fosse stato il suo più grande rivale – da refrattario alla banalità quale era – Senna se ne uscì col nome del semisconosciuto Terry Fullerton, suo compagno di squadra ai tempi del kart prima di passare in F1.
Motivò la risposta affermando che quelle sfide erano pura guida, pura competizione, puro divertimento.
Che fosse anche un affronto a Prost, invece, non c’era bisogno che lo dicesse.
Ayrton era dipendente dalla sfida, viveva per vincere ma la semplice vittoria non gli bastava, voleva di più.
Ad una dolcezza da tutti riconosciuta affiancava una cattiveria agonistica spietata (“A volte le gare finiscono subito dopo il via e a volte a sei giri dalla fine…”).
Era sfacciatamente cinico (spesso il suo obiettivo era umiliare Prost), permaloso – credeva fortemente in quello che faceva – ma nelle sue vendette c’era un senso di giustizia per un torto subito.
Un animale da pista che però nel bel mezzo di un giro in qualifica (la sua specialità) seppe fermarsi, scendere dalla vettura e soccorrere il pilota Erik Comas (vittima di un pauroso incidente) salvandogli la vita.
E rischiando la propria.
La personalità del pilota brasiliano è un esempio didascalico dello scontro apollineo-dionisiaco narrato da Nietzsche.

Aveva un rapporto di profondo amore con la propria terra, che ripagava con l’orgoglio di rappresentarla da numero uno.
Il Brasile, paese dalle mille sfaccettature che più contraddizione non si può.
Si sentiva, Senna, in dovere di fare qualcosa per la sua nazione, per i poveri, per i bambini soprattutto, ma senza quell’ostentazione che rende quei poveri – offendendoli – ancora più poveri (“Non potrai mai cambiare il mondo da solo. Però puoi dare il tuo contributo per cambiarne un pezzetto. Quello che faccio davvero io per la povertà non lo dirò mai. La F1 è ben misera cosa in confronto a questa tragedia”).
Sapeva benissimo di essere il pilota più bravo ed assurgere ulteriormente quando già l’acme pareva raggiunto lo rendeva vivo.
Anche l’uomo-Ayrton era al centro dei suoi pensieri, non poteva esserci l’uno (l’uomo appunto) senza l’altro (il campione).
Legatissimo alla propria famiglia, non rinunciava alla bramosia, aveva una proprietà di linguaggio e una comunicativa mai visti prima in un pilota che strizzavano l’occhio alla filosofia.
Estoril ’85 (la prima vittoria), Suzuka ’88 (dal 14° al 1° posto che valse il primo iride) e Interlagos ’91 (prima vittoria in casa, le urla nel casco scolpite nella memoria e la Coppa alzata a fatica) sono esempi di misticismo nei quali dichiarò di aver avvertito la presenza di Dio.
Non occorre essere un seguace della fisiognomica (presente!) per intuire la personalità di Ayrton da due particolari del suo viso: il sorriso (dolce, quasi imbarazzato, che esplodeva di rado come per preservare una cosa preziosa) e gli occhi (caldi,profondi, ipnotici).
In apparenza tristi, forse per chi associa il pensare alla malinconia.
Felicità e pensiero possono convivere serenamente senza fare a cazzotti.
(“Se una persona non ha più sogni, non ha più alcuna ragione di vivere.Sognare è necessario,anche se nel sogno va intravista la realtà.Per me è uno dei principi di vita”).
A chi lo dipingeva come un folle kamikaze che in nome di Dio si sentiva immortale lui rispondeva che pensava anche alla morte, ma sognava la vita.
Si è sempre battuto strenuamente per migliorare la sicurezza dei piloti, consapevole che in un secondo ti può cambiar la vita (e così sarà).
Era animato da una profonda fede, ma lo potremmo definire più spirituale che religioso, anche nelle pieghe ad libidum (“Se nel ’94 avrò la macchina migliore è anche un diritto che mi sono conquistato”).

Una citazione che suona oggi quanto mai tetra.
Perché si deve per forza tornare alle immagini di quel maledetto fine settimana, toccanti ogni volta che le si riguarda.
Anzi peggio, strazianti proprio perché si conosce l’epilogo.
Mai visto Senna così turbato come ad Imola, in un Gran Premio dai tanti segnali (incidenti a ripetizione, Ratzenberger morto il sabato) e coincidenze (Ayrton che per la prima volta al via è nell’abitacolo senza il casco infilato), con la stessa dinamica dell’incidente che sembra avvalorare la tesi del disegno ultraterreno (a seconda in cosa ognuno creda).
Qualcuno – ricostruendo gli ultimi giorni della sua vita – assicura che Ayrton sapesse di andare incontro alla morte e quindi – per un credente come lui – incontro a Dio.
Senna rientra in quel novero di personaggi che parevano aver scritto – da soli o dietro l’influsso di qualcuno – il copione della propria vita, inserendo volutamente delle difficoltà per recitare meglio la propria parte, elevarsi e distinguersi dagli altri.
E’ morto giovane, in gara, dove era primo, ovvero il destino – fortemente cercato – della sua vita.
Era già mito e leggenda, è andato oltre tutto ciò.
Ci sarebbe andato comunque.

Articoli della rubrica Semplicemente Ayrton:

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