Diceva Lucio Dalla: a chiunque voi chiediate cosa stesse facendo il pomeriggio del 01/05/1994 questi vi saprà rispondere con precisione.
Perché quel giorno morì a 34 anni (compiuti da poco) Ayrton da Silva, meglio conosciuto come Ayrton Senna.
In Senna sapevano convivere due fuoriclasse in perfetta simbiosi fra loro: l’uomo ed il pilota.
Quella di unire doti apparentemente in antitesi (o comunque recalcitranti fra loro) sarà una costante della sua vita e della sua carriera.
Aveva qualità talmente adamantine che la genialità pareva aver scelto lui per fare bella mostra di sé nella sua forma più pura.
Genio e regolatezza: in nessun altro pilota il talento fu più a così stretto contatto con la meticolosità.
Dopo una sonora sconfitta sull’acqua patita coi kart decise di allenarsi intere giornate sulla pista bagnata: su quella superficie diventerà letteralmente imbattibile.
Avete mai visto un brasiliano essere l’idolo dei meticolosi ingegneri giapponesi?
Ebbene sì.
Che fosse un predestinato lo si era capito da quell’esordio dirompente a Montecarlo, dove il fato – in una delle sue più brillanti intuizioni – gli farà incrociare Alain Prost e con un anelito sembrava avesse detto loro “Che il duello abbia inizio”.
Ayrton combatteva contro diversi rivali: gli altri piloti in primis, indubbiamente se stesso, ma anche la macchina e la fisica (non a caso si batterà contro la svilente elettronica che appiattisce i valori in gioco come in una Play Station).
Il suo inimitabile stile di guida (si può solo ammirare, in questo caso le immagini surclassano le parole) era pregno del rapporto primordiale fra l’uomo e la velocità: da bordo pista erano udibili le sue urla prima delle staccate più violente.
Ovviamente in punti dove osava farle solo lui.
Il fuoriclasse brasiliano dava sempre la sensazione di potersi inventare qualcosa in qualsiasi momento (“Non esiste una curva dove non si possa sorpassare”), quasi captasse sensazioni metafisiche.
Le sue non erano mai vittorie banali, erano la sublimazione delle stesse.
Il pathos che sprigionava Ayrton Senna nelle prove raggiungeva il suo parossismo a 5 minuti dalla chiusura.
Con lui in pista le qualifiche erano una gara nella gara (da vincere anche quella, of course).
E’ stata la sua smodata passione per le competizioni a fargli conoscere il limite: prima un obiettivo da raggiungere poi un compagno col quale convivere per un reciproco innalzamento di valori, un volano dello stimolo.
Il valore di un pilota non dipende dal numero di Mondiali vinti.
Dipende da come li vinci e contro chi li vinci (“Ho bisogno di fare qualcosa di speciale. Ogni anno qualcuno vince un titolo. Io voglio fare di più”).
Quella era la generazione di Piquet, di Prost e di Mansell.
E di auto dannatamente brutali.
Rivedere una camera card dell’epoca aiuta a capire che razza di mostri fossero da domare le monoposto di allora.
Schumacher, dall’alto dei suoi 7 titoli iridati (lungi da me da scatenare risse da Far West fra tifosi), quando ha incontrato piloti validi con auto affidabili (Hakkinen, Villeneuve, Alonso) ha dovuto alzare bandiera bianca pure lui.
Il campione di San Paolo usciva (spesso) vincitore anche nelle sconfitte (a Suzuka ’89, quando a fermarlo furono i giudici, cioè la Fia di Balestre) o nel ’93 quando su una Mc Laren imbarazzante ha innalzato il significato etimologico della parola capolavoro.
Asserire che con la sua morte sia finita anche la F1 può risultare eccessivo.
Affermare che un personaggio come lui non calcherà più il paddock è quantomeno sensato.
Avvalorando (forse) la prima ipotesi.
Era il più bravo ma è stato per lungo tempo anche il più osteggiato dal Palazzo: il già citato Jean-Marie Balestre (l’allora Presidente della Federazione) molto simpaticamente gli tolse un Mondiale per darlo all’amico Prost francese come lui e non smise di ostacolarlo quando poteva (sempre a Suzuka invertì la partenza dalla pole, fomentando l’altra storica collisione col pilota francese).
Giustizia e meritocrazia infatti erano fra i capisaldi del Senna-pensiero.
Capì subito (a proprie spese) cosa fossero i giochi di potere nella F.1, ambiente nel quale aveva pochi amici(Gherard Berger, il medico Sid Watkins e il team manager Ron Dennis) e che certo non gli si confaceva.
Proprio non digeriva, il tre volte campione del Mondo, la politica nello sport e lo sport della politica (“La Formula uno è politica e denaro.Quando non sei ancora importante devi affrontare questo tipo di cose”).
Non esiste un grande campione senza una grande rivalità.
Il suo rapporto Alain Prost era farcito di acredine, di incompatibilità, di rispetto sportivo (poi svanito anche quello), di risentimento e di odio.
Ma di Alain il campione brasiliano aveva bisogno.
Anche se un giorno, alla domanda su chi fosse stato il suo più grande rivale – da refrattario alla banalità quale era – Senna se ne uscì col nome del semisconosciuto Terry Fullerton, suo compagno di squadra ai tempi del kart prima di passare in F1.
Motivò la risposta affermando che quelle sfide erano pura guida, pura competizione, puro divertimento.
Che fosse anche un affronto a Prost, invece, non c’era bisogno che lo dicesse.
Ayrton era dipendente dalla sfida, viveva per vincere ma la semplice vittoria non gli bastava, voleva di più.
Ad una dolcezza da tutti riconosciuta affiancava una cattiveria agonistica spietata (“A volte le gare finiscono subito dopo il via e a volte a sei giri dalla fine…”).
Era sfacciatamente cinico (spesso il suo obiettivo era umiliare Prost), permaloso – credeva fortemente in quello che faceva – ma nelle sue vendette c’era un senso di giustizia per un torto subito.
Un animale da pista che però nel bel mezzo di un giro in qualifica (la sua specialità) seppe fermarsi, scendere dalla vettura e soccorrere il pilota Erik Comas (vittima di un pauroso incidente) salvandogli la vita.
E rischiando la propria.
La personalità del pilota brasiliano è un esempio didascalico dello scontro apollineo-dionisiaco narrato da Nietzsche.
Aveva un rapporto di profondo amore con la propria terra, che ripagava con l’orgoglio di rappresentarla da numero uno.
Il Brasile, paese dalle mille sfaccettature che più contraddizione non si può.
Si sentiva, Senna, in dovere di fare qualcosa per la sua nazione, per i poveri, per i bambini soprattutto, ma senza quell’ostentazione che rende quei poveri – offendendoli – ancora più poveri (“Non potrai mai cambiare il mondo da solo. Però puoi dare il tuo contributo per cambiarne un pezzetto. Quello che faccio davvero io per la povertà non lo dirò mai. La F1 è ben misera cosa in confronto a questa tragedia”).
Sapeva benissimo di essere il pilota più bravo ed assurgere ulteriormente quando già l’acme pareva raggiunto lo rendeva vivo.
Anche l’uomo-Ayrton era al centro dei suoi pensieri, non poteva esserci l’uno (l’uomo appunto) senza l’altro (il campione).
Legatissimo alla propria famiglia, non rinunciava alla bramosia, aveva una proprietà di linguaggio e una comunicativa mai visti prima in un pilota che strizzavano l’occhio alla filosofia.
Estoril ’85 (la prima vittoria), Suzuka ’88 (dal 14° al 1° posto che valse il primo iride) e Interlagos ’91 (prima vittoria in casa, le urla nel casco scolpite nella memoria e la Coppa alzata a fatica) sono esempi di misticismo nei quali dichiarò di aver avvertito la presenza di Dio.
Non occorre essere un seguace della fisiognomica (presente!) per intuire la personalità di Ayrton da due particolari del suo viso: il sorriso (dolce, quasi imbarazzato, che esplodeva di rado come per preservare una cosa preziosa) e gli occhi (caldi,profondi, ipnotici).
In apparenza tristi, forse per chi associa il pensare alla malinconia.
Felicità e pensiero possono convivere serenamente senza fare a cazzotti.
(“Se una persona non ha più sogni, non ha più alcuna ragione di vivere.Sognare è necessario,anche se nel sogno va intravista la realtà.Per me è uno dei principi di vita”).
A chi lo dipingeva come un folle kamikaze che in nome di Dio si sentiva immortale lui rispondeva che pensava anche alla morte, ma sognava la vita.
Si è sempre battuto strenuamente per migliorare la sicurezza dei piloti, consapevole che in un secondo ti può cambiar la vita (e così sarà).
Era animato da una profonda fede, ma lo potremmo definire più spirituale che religioso, anche nelle pieghe ad libidum (“Se nel ’94 avrò la macchina migliore è anche un diritto che mi sono conquistato”).
Una citazione che suona oggi quanto mai tetra.
Perché si deve per forza tornare alle immagini di quel maledetto fine settimana, toccanti ogni volta che le si riguarda.
Anzi peggio, strazianti proprio perché si conosce l’epilogo.
Mai visto Senna così turbato come ad Imola, in un Gran Premio dai tanti segnali (incidenti a ripetizione, Ratzenberger morto il sabato) e coincidenze (Ayrton che per la prima volta al via è nell’abitacolo senza il casco infilato), con la stessa dinamica dell’incidente che sembra avvalorare la tesi del disegno ultraterreno (a seconda in cosa ognuno creda).
Qualcuno – ricostruendo gli ultimi giorni della sua vita – assicura che Ayrton sapesse di andare incontro alla morte e quindi – per un credente come lui – incontro a Dio.
Senna rientra in quel novero di personaggi che parevano aver scritto – da soli o dietro l’influsso di qualcuno – il copione della propria vita, inserendo volutamente delle difficoltà per recitare meglio la propria parte, elevarsi e distinguersi dagli altri.
E’ morto giovane, in gara, dove era primo, ovvero il destino – fortemente cercato – della sua vita.
Era già mito e leggenda, è andato oltre tutto ciò.
Ci sarebbe andato comunque.
Articoli della rubrica Semplicemente Ayrton:
https://shiatsu77.me/category/semplicemente-ayrton-rubrica/
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