La situazione poteva apparire come un punto a favore di chi sostiene che abbiamo un destino.
Ma quelli dell’altra parte – fautori che ognuno di noi si crea il proprio – replicherebbero da par loro.
Ed entreremmo in una delle più classiche aporie.
Comunque sia, vent’anni, fa trovai sul banco della maturità questa traccia, che solo gli inviati del TG1 chiamano così, visto che per noi quello era IL TEMA di italiano:
“Quando un popolo non ha più senso vitale del suo passato si spegne. La vitalità creatrice è fatta di una riserva di passato. Si diventa creatori anche noi, quando si ha un passato. La giovinezza dei popoli è una ricca vecchiaia” (C. Pavese).
Discutete e sviluppate con riflessioni personali il principio enunciato nel passo su riportato.
La scorsa del titolo mi riportò, ridanciano, al pomeriggio del giorno prima, quando Mauro Pigozzi attingendo alle fonti di quel che rimaneva del Kgb mi diede la soffiata che l’argomento del tema d’attualità sarebbe stato internet.
Con fare complice lo ringraziai sentitamente come si ringrazia un amico che pensa agli altri (lui è un companero coerente) ed anche se già allora il legame e la confidenza erano forti, attesi pudicamente di riattaccare la cornetta prima di esclamare tra me e me ad alta voce <Ah, internet!Ma che cazzo è poi ‘sto internet?>
E via di corsa in biblioteca, visto che internet non c’era ancora al Peep.
E nemmeno in centro.
(Domani quando sentirò Mauro gli chiederò chi fu quell’idiota che mise in giro la voce)
Pure a quell’età sentivo il bisogno di scrivere, solo che ancora non lo sapevo.
E quindi non lo facevo, se non in qualche forma embrionale.
Avevo già un rapporto sereno ed amichevole col concetto di passato, imperniato su atavici richiami che lo rendevano un habitué del mio giovane logos.
Senza forzature, era quella che si diceva una frequentazione spontanea.
Una, due, tre letture – che non si sa mai – ed una buona fetta di tensione decise di levarsi dal mio stomaco per fare spazio alla consapevolezza che avrei fatto un buon tema.
Perché un miglior titolo non poteva capitarmi.
E così fu.
Ma da un po’ mi balena l’idea di rifarlo, quel tema.
Come mi piacerebbe rileggere il mio.
Comunque, ecco qui.
In natura solo gli alberi con le radici solide e profonde, che si diramano il più possibile, possono crescere forti, rigogliosi ed indipendenti.
Ogni centimetro di terra conquistata è l’avvicinamento a qualcosa percepito come nettare vitale, un richiamo al centro della terra, all’origine della vita.
Ma anche questi alberi possono ammalarsi e soccombere, figuriamoci quelli con radici precarie o gli esili arbusti che di radici posseggono si e no un surrogato.
L’uomo è l’animale più intelligente ma anche quello dotato del più alto tasso di autolesionismo.
La sua principale forma di apprendimento è l’imitazione, che presuppone un qualcosa di preesistente.
Il passato è inciso nell’anima delle persone, e in maniera silenziosa come solo il divenire può essere, in parte è tramandato geneticamente e con chissà quali alchimie: certi comportamenti, archetipi, cliché e paure derivano da quel biologico e sofisticato passaparola sul quale poggia la macchina-uomo.
Le esperienze di ognuno sono parte stessa delle persone.
Ma non basta affidarsi al Dna e all’istinto.
Dobbiamo imparare a frequentare appieno questo archivio (che diventa ogni giorno più vasto, ricco ma anche dispersivo), guardare negli scaffali, scegliere i documenti più attinenti ed interpretarli.
Consci che questi documenti si presteranno a più versioni dello stesso esegeta senza che nessuno lanci accuse di ondivaghismo.
Il passato è un amico consigliere dotato di scarsa iniziativa, che fa sentire la propria opinione raramente.
Fa il prezioso, sa di esserlo, va interpellato con dedizione ed abnegazione e col rispetto un po’ ossequioso che meritano le cose dotte.
E’ il depositario di una materia intelligibile ma sovente si comporta come quel vecchio nonno che teneramente fa sempre la stessa giocata per permettere al nipotino di strozzargli il carico e renderlo più emancipato.
Peccato che il discente non di rado rimanga ignorante, inetto ed insipiente.
L’esplorazione e lo scandagliamento del passato rappresentano una spiritualità immanente per vivere la propria esistenza in prima persona e non per conto terzi.
Un uomo privo di storia vive a discapito di se stesso.
Lo Stato – in un insostenibile equilibrio fra irredentismo, autonomia ed atrocità- è la massima espressione del concetto di comunità, a sua volta proiezione dell’individuo.
La storia di uno Stato non si limita alla contemporaneità o ad un esiziale positivismo, quello che è successo prima ci condiziona perché ha plasmato una collettività.
Se uno Stato non fa i conti col proprio passato arriva il redde rationem, che oggi ha le vesti luccicanti dell’ultra liberismo.
Una foggia che cela comunque la solita falce portatrice di morte.
E’ più vitale fare i conti con il proprio passato che ignorarlo acriticamente.
Senza il caldo soffio di quel che fu, una comunità al massimo sopravvive, ma non tarda ad imboccare il cunicolo dello straniamento che la conduce all’oblio e all’assopimento.
La cancellazione del passato preclude il futuro, poiché chiude delle porte che getteranno ombre e faranno rimanere bui altri pertugi, altri passaggi.
Nei quali si inserirà perfidamente qualcun altro.
L’uomo ogni giorno si evolve e crea del passato, ma rischia di dimenticarselo.
Il corso d’acqua che ci ha levigato non deve sfociare nella consuetudine.
Non è un inno allo storicismo in sé e per sé o un capriccio da nostalgite: il passato non può essere il punto di arrivo ma un balsamico viatico per il domani.
Chi è fanatico della propria storia non sopporta le altre, chi una storia non ce l’ha non ne concepisce il mantenimento per nessuno.
La storia non è da inseguire, da mitizzare tout court, nemmeno da replicare, ma una sorta di pietra filosofale dalla quale attingere.
Il nostro paese è sempre rimasto in coda senza mai riuscirci e quando ha voluto recuperare schiacciando l’acceleratore sul fanatismo ha precluso per sempre la creazione di un senso di appartenenza nazionale.
L’Italia è un esempio didascalico di eredità perduta, un sinistro con concorso di colpa fra gli esperimenti della globalizzazione (che stanno tranciando una ad una tutte le incantevoli identità locali) e la cronica imbelle pavidità del suo popolo.
Ignorare la storia è stupido e pernicioso esattamente come farsela scippare.
Oggi la frase di Pavese suona ancora più cupa, un presagio della fase 2.0 del liberismo d’assalto iniziata negli anni Ottanta ed arrivata senza soluzione di continuità fino al terzo millennio digitale.
Quello che allora pareva un semplice monito dopo soli vent’anni echeggia come un disperato tentativo di salvataggio.
Che speriamo non si perda nel vuoto.
L’essere umano è stato livellato ad una sua invenzione,il computer:con un colpo di spugna si cancella il vecchio sistema operativo che deve durare al massimo un paio di stagioni e poi via col nuovo giro.
Parimenti, lo Stato è un concetto (grossomodo) settecentesco che qualcuno ha deciso di dismettere perché il Potere viene espletato meglio in altre forme, diciamo così, più globali.
Cancellare la storia è stato il refrain di uno dei romanzi distopici più visionari:si vuole combattere la storia perché chi guarda al passato assorbe una moltitudine di persone, esperienze, idee, luoghi e situazioni che porta dentro di sé, sprigionando una salvifica spinta vitale.
Ed è più facile attaccare un uomo solo che un simile condensato di vite.
Un tempo (e non serve scomodare i secoli scorsi) chi possedeva esperienza – logicamente le persone anziane – assurgeva ad oracolo ed era il custode di un prezioso tesoro che veniva tramandato quotidianamente coi rapporti personali.
La conoscenza del passato era sinonimo di saggezza e quindi di considerazione, mentre adesso è un inutile fardello che ostacola i piani modernisti e va derisa ed isolata per il suo odore popolare e stantio.
E’ molto più moderno il caotico isolamento da tecnologia, habitat ideale per bombardare l’inerme suddito di slogan inneggianti ad un futuro e ad oggetti che si esauriranno dopo poco perché di questo vive il nuovo capitalismo.
Sono i neologismi dell’esistenza.
Ci fosse stato il vaticinato tema su internet – in quel giugno targato 1996 – sarebbe stato un inquietante passaggio di consegne.
Oramai sono in troppi a credere che la vita sia lì, nella Rete, con tutto a portata di click dove internet incarna i nuovi crismi della sacralità:profeta, tavola e verbo.
Anche la Trinità passa alla connessione multimediale.
Siamo perché eravamo.
Come eravamo, per essere ancora.
Il passato per costruire il futuro.
La vecchiaia che galvanizza la gioventù.
Nutrirsi della storia per mantenere e creare.
I paradossi e le dicotomie di cui è costellata la vita ci aiutano a svelarla.
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