(Articolo scritto in collaborazione con Imerio Bolognini, Mauro Pigozzi ed Aurelio Corsini, alias Nelson Bolognera, Ramuo Gopizzi e Karl Aurel Kohrsin).
Per comprendere la fenomenologia dell’Italia dell’ultimo ventennio si deve necessariamente passare da loro: Luciano Ligabue e Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti.
Perché la loro genesi e metamorfosi corre parallela a quella del Paese.
A volte è qualche metro avanti alla gente, in altre occasioni a ruota ad inseguirla, perché il cliente ha sempre ragione.
Che Lorenzo non sappia cantare è tanto risaputo quanto ininfluente (anche Francesco Bianconi non è un virtuoso dell’ugola, ma lui ed i Baustelle si fanno ricordare per altri trentotto buoni motivi).
Se Jovanotti fosse una canzone sarebbe Il Potere dei più buoni del Signor G, se fosse un conduttore sarebbe Fabio Fazio, che non lesina di chiamarlo in trasmissione per la liturgia del salomonico volemose bene.
Se fosse un politico sarebbe Renzi, perché incarna ed alimenta il renzismo e sostenendolo in pubblico fa campagna pubblicitaria anche a se stesso (chi si somiglia, si piglia).
Jovanotti – contrariamente a quanto propinato dalla presunta stampa specializzata – ha raggiunto il suo acme e la sua dimensione più autentica ai tempi di Gimme five e La mia moto.
Poi è cresciuto, certo, si è documentato ed ha studiato.
Sicuramente Comunicazione e Marketing.
Il Jova è il Profeta dell’happy ending, un guru della rivoluzione indolore (dunque inesistente).
Nel suo magico mondo vagamente fiabesco il Bene vince sempre sul Male e l’unico effetto collaterale è che le sue canzoni d’amore devono essere vietate ai diabetici causa eccesso di melassa.
Lui non detta la linea (d’altrone “niente più leader a guidare le masse”), racconta semplicemente loro quanto richiesto, per farli sentire impegnati senza il bisogno d’impegnarsi, la perfetta auto-assoluzione di una generazione scarsamente esigente e senza mordente.
All’invettiva risponde con l’apparenza patinata, all’originalità preferisce la supercazzola.
Antiberlusconiano quanto basta per essere accettato dalla (fu) intellighenzia, quella barba inutilmente lunga tradisce più un perbenismo interessato che un messaggio incendiario.
Se la sinistra è quasi collassata lo si deve anche dagli artisti da cui si è fatta rappresentare: tanto banali quanto pavidi, melliflui, edulcorati ed equilibristi per scelta e pure per vocazione.
Su Ligabue la mia generazione potrebbe scrivere un Trattato.
Si è inserito abilmente nel solco lasciato tra la musica sfacciatamente ribelle dei Litfiba e quella melanconicamente contro di Vasco, con un’iconografia fresca ed ammaliante per piacere alla figlia ma anche alla mamma: look vagamente indiano, stivaletti, capello lungo ma non troppo ed un sorriso coinvolgente da bravo ragazzo.
Rockettaro si, maledetto no (sia mai).
Questo cerchiobbotismo sarà il suo tratto distintivo, il suo stilema.
Ha sempre detto di voler raccontare solo storie.
E così ha fatto, ed anche bene (almeno fino a Buon Compleanno Elvis, poi le sonorità graffianti degli inizi hanno salutato la folla che nel frattempo si è fatta più nutrita).
Ma l’ispirazione di un artista è figlia dell’insoddisfazione, di qualcosa che non ti va e che vorresti cambiare, di un vuoto da riempire, anche della semplice incazzatura finchè sei giovane.
Tutte situazioni estranee al rocker di Correggio.
Basti pensare che mentre gli Anni Novanta implodevano nello stesso istante in cui erano nati (http://shiatsu77.me/2014/09/29/la-speranza-faceva-novanta/) lui manco se ne è accorto, perché se ne stava comodamente da Mario a giocare a briscola.
E parlava di quello (perché poteva solo parlare di quello).
E a noi piaceva (proprio perchè parlava di quello).
Non aveva alternative, al banco del bar il coraggio e la creatività non si potevano ordinare.
Ha poi voluto fare il poeta ma gli assi – essendo solo quattro – finiscono in fretta.
Noto cultore di se stesso, ha corroborato la propria agiografia fra libri, film e mega-concerti (alcuni riusciti, altri decisamente più infelici).
Sempre ecumenico, sempre nazionalpopolare, sempre attento a non scontentare nessuno (ovvero tutti), è un un Bruce Springsteen de noantri.
Ligabue è quello che vuole fare il tipo de sinistra ma senza che gli disturbino l’Happy Hour.
Le poche volte che si è schierato (frequenti come un rigore contro la Juve a Torino) ha fatto seguire, il giorno dopo, un passo dall’altra parte come il Manuale del perfetto equilibrista insegna a pagina uno.
Quella lagna monumentale che è Una vita da mediano non credo sia un’inno ai più umili o ai tenaci che senza talento possono farsi spazio nella vita, ma l’ammissione (involontaria o meno) che lui non sarà mai un Johan Cruijff ed allora meglio tenersi buono l’alibi nel taschino o nel cassetto.
Anche nell’ultimo album che gli esegeti della domenica han definito contro chi ci ha ridotto così (sic), quando proprio gli si chiude la vena esonda con “Siamo il capitano che vi fa l’inchino/siamo la ragazza nel bel mezzo dell’inchino/siamo i trucchi nuovi per i maghi vecchi” o addirittura “C’è qualcuno che può rompere il muro del suono/mentre tutto il mondo si commenta da solo” e financo “Chi doveva pagare non hai mai pagato l’argenteria”
Oh però, non le ha manda mica a dire il Liga, gliele ha proprio cantate chiare.
A memoria d’uomo l’unica canzone con cui Ligabue – anziché prendersela col cielo e logorarsi per il tempo che non sarà mai il suo – punta il dito contro qualcuno è Il Gringo (versione ’91 e ’94).
Ma dev’essere stata una brutta esperienza, quindi meglio non suonarla dal vivo (o farla passare alla radio) per non rievocare fastidiose sensazioni.
Le partite si possono vincere e perdere, Luciano Ligabue le ha sempre pareggiate senza mai scendere in campo.
Jovanotti e Ligabue sono artisti che si tengono ormai a galla da soli e senza nemmeno nuotare, organici non più ad un’idea o ad uno stile ma a qualcosa di liquido come lo Zeitgeist.
Il sistema è veramente contento di farsi contestare da due così, cioè da se stesso.
Sono artisticamente corretti (quindi un ossimoro) e come tutti i conformisti di solito stan sempre dalla parte giusta (cit.)
“Come si conviene farò di tutto per parlare/come si conviene di soldi e di politica/tutto per bene andrà come doveva andare” (Max Gazzè dixit).
Per entrambi la sintesi finale viene dal mitico Sabba “Ma quando ascoltano le loro canzoni, si piaceranno?”.
Per esempio: ieri sera, 20 novembre 2014, mi reco al Teatro Regio di Parma, per assistere al Concerto di Paolo Conte…. lo faccio per mio papà, che mi accompagna essendo fan sfegatato, ma lo faccio anche per me, che mi piace da matti l’avvocato di Asti…. bene, vedo un quasi 80enne che ai nostri due eroi, anche se scrivesse nel suo diario personale, ancora dal vivo gli da quel 18 a 0…. uno che, se lo invitasse Fazio, non c’andrebbe neanche sotto tortura, ed infatti manco lo invitano…. ma dove siamo rimasti fermi???? Ma molto tanto indietro!!!!!
Certi personaggi sono di nicchia perché tenuti volutamente ai margini, in quanto scomodi.
Poi questo non vuol dire che si debba sempre fare “gli impegnati”, anche il genere commerciale ha la sua funzione: bisogna però evitare di affidargli investiture che non ha e trattarlo come tale.
Concordo. Su tutto ciò che scrivi.