Quando lo sguardo si volta ad analizzare la fenomenologia di una dittatura o di un regime diversamente democratico, ci si chiede, ex post, come sia stato possibile permetterne la nascita e non impedire alle prime fiamme di diventare incendio.
Quando lo si vive invece – un momento storico del genere – almeno inizialmente le nostre percezioni spesso sono come rallentate, intorpidite, anestetizzate.
Non so se la storia si ripeta sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa (cit.), certo è che il genere umano pare afflitto da un’evidente coazione a ripetere.
Gli italiani sentono il bisogno di emergere ed aggiungono una memoria storica paragonabile a quella del Commodore 64 nell’era di internet.
Durante il ventennio che si è appena concluso ognuno di noi ha immaginato e scritto la propria sceneggiatura-onirica del finale.
Ma nemmeno la più fervida immaginazione poteva arrivare a tanto.
Gli anni della Seconda Repubblica non erano semplicemente la svolta verso un regime, erano anche anni propedeutici.
Le riforme (un’entità astratta, forse miracolosa, ma che noi italiani abbiamo visto finora nella copia peggiore), dicevamo le riforme che non erano riuscite prima (l’abolizione dell’articolo 18, una giustizia più prona all’Esecutivo, una forma di Governo più autoritaria e servizi sociali sempre più carenti) si realizzeranno ora.
Prima queste proposte erano inquadrabili come deriva totalitaria, ora sembrano il naturale programma di una forza socialdemocratica che se le racconta ad una festa di partito fra lambrusco e gnocco fritto.
Se prima l’emanazione di una certa sinistra almeno si indignava (più nelle parole che nei fatti), ora gli stessi progetti li avvalla perinde ac cadaver con tanto di levata di scudi con chi osa dissentire (i soliti gufirosiconidisfattisti).
E i mezzi d’informazione non perdono l’atavico vizio (uno dei retaggi del fascismo) di lisciare il pelo al potente di turno.
E’ proprio vero quello che diceva un vecchio spot:con la dolcezza si ottiene tutto.
Oggi al MinCulPop bastano le slides, qualche Twit/Hashtag e le immancabili supercazzole (anche in inglese) per dissimulare le reali intenzioni ed edulcorare pillole decisamente amare e/o sgradevoli (dipende da dove sono ingerite).
Stiamo vivendo il classico caso in cui il metadone produrrà effetti più devastanti della droga assunta prima, di cui almeno si conoscevano gli effetti perniciosi.
Se dovessimo scielgliere una colonna sonora per la neonata Terza Repubblica potremmo mettere nel Juke Box (pardon, nell’em iPod) due canzoni di Giorgio Gaber: Il potere dei più buoni e Il Conformista, ritratti antropologici degli italiani.
Che si fanno ammaliare dall’arroganza travestita da decisionismo, dall’improvvisare confuso col fare, dall’illusione scambiata per rassicurazione.
Si accontentano del vanesio anziché esigere serietà e competenza.
Ci hanno insegnato, giustamente, a non dire le bugie.
Salvo rare eccezioni, avrebbero dovuto allenarci anche a riconoscerle.
Ci sono stati (e ci sono) tanti politici che a forza di raccontare balle e combinare altrettante malefatte ne hanno fatto il loro stilema, con il popolo bue a bere e digerire di tutto.
Mentre per decretare la fine politica di Antonio Di Pietro (non è immune da colpe, ma almeno aveva provato a portare la parola legalità in politica, difatti era isolato) è bastato un servizio televisivo (in parte smentito).
Gli esseri trinariciuti citati dal Guareschi nel primo dopoguerra si sono riprodotti in grande quantità.
In Italia, più che i sogni, ad avverarsi sembrano il Piano di Rinascita Democratica ed il papello di Riina.
Le promesse e gli slogan sembrano un pozzo senza fine da cui attingere per continuare a muovere le marionette-elettori.
Siccome non si interrompe un’emozione è bene che l’italiano continui ad inseguire le chimere della ripresa e della crescita.
Non diciamogli nemmeno che siamo da tempo in una ineluttabile fase di oblio che ci farà addirittura rimpiangere, fra qualche anno, i pur disastrati giorni nostri.
Asserivano i vecchi d’una volta (in dialetto)”Tùc i temp i venne basta star”
(Sottotitoli della pag. 777 di Televideo: “Tutti i tempi vengono basta aspettare”).
Avevano ragione.
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