Tuc i temp i venne basta star è un proverbio montanaro che si può tradurre in .
Ogni volta che lo sentivo (cioè spesso) mi suonava un po’ antipatico nel suo malcelato essere rivelatore e cercavo di sfidarlo.
Di provocarlo.
Di evocarlo per poi scimmiottarlo.
Era una stecca passata da tanti palmi di mano e in quel momento era brandita dalla mamma e dal papà (che adoravo allora come oggi) e anche se allora non lo ammettevo a me stesso neanche sotto tortura, in cuor mio sapevo che un giorno sarebbe toccato a me pronunciarlo.
Ma vedevo quel giorno distante e facevo carte false per allontanarlo il più possibile.
Nonostante chi lo proferiva fosse guida ed affetto insieme, nello stesso istante si tingeva di vecchio e si costellava di una pruriginosa saggezza che infastidiva un po’ il giovanissimo dirimpettaio.
Ma a quell’età è doveroso comportarsi così.
Quando cioè l’immaturità vuoi tapparla con pesanti dosi di manicheismo, o forse è proprio quell’acerbo manicheismo che rivela l’immaturità.
Invece oggi, in questa età di mezzo, la stessa strofa assume una valenza diversa.
Sgomberiamo il campo da equivoci, il significato di Tuc i temp i venne basta star non è da confondere con il messianismo e l’afflizione presenti in quasi tutte le escatologie.
Con quel detto non si attende nessun giudizio universale, non si invoca nessuna giustizia divina e nondimeno non si esorta alcun atteggiamento remissivo.
Con quelle cagate lì il vecchio adagio non ha niente da spartire.
Il nostro è un proverbio che attenua la paura del divenire e lenisce certi suoi effetti.
Ci invita a prepararci alla sorpresa.
Annuncia un cambiamento, senza apporre la data.
Ciò che un giorno credevamo impossibile, od inaccettabile, potrebbe, col dovuto tempo, diventare quotidiano.
Di questo ci informa, se vogliamo in maniera aspra.
Se fosse un saggio di filosofia si intitolerebbe “Della consapevolezza” e sarebbe intriso di una genuina immanenza spirituale.
È una frase che ci rende edotti che dell’albero non si muoveranno solo i rami e le foglie ma anche le radici.
Ci rivela che l’elasticità può essere più forte della rigidità, a volte.
Simboleggia l’autodiagnosi, è un inno al tutto scorre.
Ci aiuta ad elaborare che il fiume nel quale ci bagniamo non può farlo per sempre.
Quell’acqua che ci ha cullato, rinfrescato, nutrito e divertito non può più cullarci, rinfrescarci, nutrirci e divertirci come prima.
Noi stessi cerchiamo un altra corrente.
Cambiamo noi e cambia l’acqua.
Si muta.
E ci si evolve.
Sta a noi decidere in quale modalità.
Qualche botta in faccia, svariate cicatrici nell’anima (che al variare del tempo lanciano delle carognose fitte) e un tasso di disillusione in perenne crescita.
Ma anche valorizzare ciò che davvero conta, senza più la titubanza di eliminare gli inutili orpelli ed avendo esaurito il bisogno di farsi accettare.
Guidati dalla stima e dal rispetto di se stessi, e di conseguenza di chi amiamo.
Supportati da un coraggio che ha terminato la propria crescita.
Si inizia così a prendere la vita per le corna, consci che i colpi di coda si ripresenteranno in tutta la loro stronzaggine.
Non vuol affatto dire aver perso la spensieratezza, perché ci sono tre modi diversi di crescere ed uno solo prevede anche d’invecchiare.
A tanto può arrivare quella multiforme e longeva frase, se bene interpretata.
In cambio chiede di essere curiosi di se stessi.
Di essere il confidente, di se stessi.
Di essere bramosi di stupirsi nuovamente, ma senza l’obbligo di doverlo fare.
Basta non confondere la coerenza con l’inflessibilità, ma nemmeno buttarsi nel cambiamento ad ogni tirata di vento.
Se allora l’aforisma aveva un sapore stantio oggi è gradito al palato e giù fino in fondo, lo si può pronunciare ma anche serenamente subire da perenni discenti della vita quali siamo.
Ma con uno spirito diverso da allora.
Perché Tuc i temp i venne basta star.
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