I Settanta sono gli anni dell’appartenenza, della lotta, dell’agorà.
Conquiste epocali andavano di pari passo con la strategia della tensione e con prove tecniche di dittatura da terzo millennio.
Anni impegnati, ma anche truci e rabbiosi dove l’ideologia e le pallottole si rincorrevano in un tremendo meccanismo di causa-effetto.
Manicheismo, tanto.
Manipolazione, molta più del percepito.
Se non si comprende quel periodo è inutile sforzarsi di capire i nostri giorni.
Gli anni Ottanta sono stati invece decisamente più comodi e spensierati.
Divertenti.
Tanto.
Troppo.
Dalle piazze alle discoteche il passo fu breve: Milano da bere, yuppies e paninari, da noi.
Edonismo sfegatato, dappertutto.
Dopo gli anni di piombo la gente volle distensione.
Gliela diedero e in omaggio pure il superfluo che più superfluo non si può.
Un po’ oppio per il popolo e un po’ canto della sirena: l’egemonia culturale (di gramsciana memoria) del neo-liberismo a discapito del sociale nacque allora.
Gli Ottanta sono la palingenesi della plutocrazia, che oggi ha raggiunto dimensioni da crescita ormonale.
E gli anni Novanta?
Mica facile rispondere, perché quando pensi di aver azzeccato la definizione ti accorgi di esserti scordato qualcosa.
Perché i Novanta sono più indecifrabili, un condensato di tutto ed anche del suo contrario, essendo nati in maniera fallace: caduto un regime allergico alla libertà il mondo è stato liberamente obbligato a lasciare il comando ai sedicenti esportatori di democrazia col vizietto della guerra e di altre carinerie.
L’influenza del decennio precedente fu evidente, ma se con gli Ottanta il sistema per distrarre disse “Divertitevi ed esagerate pure”, coi Novanta volle dare una parvenza di contegno, pur seguendo il medesimo filone.
Forse era un modo per superare l’edonismo reaganiano sfrenato, forse era solo una sua emanazione edulcorata.
Peccato che tutto questo facesse a cazzotti con un focolare covato dentro pronto ad esplodere.
Ed esplose.
Esplose perché gli effetti e le reali intenzioni di quelle politiche iniziarono a venire a galla ,anche se in maniera confusa e a volte approssimativa: ad ogni modo si percepiva che trent’anni di conquiste sociali rischiavano di finire in nebbia.
Le persone cominciarono ad intuire di essere in un tritacarne che raramente si inceppa, così, con sofferto disincanto, per qualche istante albergò l’idea che bisognasse tornare indietro anziché andare avanti a testa bassa come si era fatto fino ad allora, perché quando si cammina a testa bassa qualcosa ci si dimentica, e il più delle volte è la dignità delle persone.
Ma dopo poco il pensiero svanì, con buona pace della dignità delle persone.
Proteste autentiche, risposte pronto uso di finto cambiamento, artefatte.
Se il periodo di tensione dei Settanta durò molto è (anche) perché faceva comodo all’autorità costituita: creare il disordine per giustificare una svolta (semi)autoritaria e reprimere il pensiero dissidente, più durava il caos più il piano funzionava.
Nei Novanta la voglia di cambiamento non era politicizzata da ideologie che andavano ormai scemando, era in un certo senso più genuina.
Quasi ingenua.
Ma durò pochissimo.
Pur intensa, la contestazione dei Novanta, rispetto ai famigerati anni Settanta, fu più sporadica e soprattutto meno partecipativa e convinta.
Ci si svegliò dalla sbornia del decennio precedente senza capire la vera causa del mal di testa, si pensava che la nausea derivasse dalla mancanza di legalità e giustizia – ed in parte era vero, visto che ce n’era senz’altro bisogno – ma i mali che iniziavano a devastarci si chiamavano capitalismo globalizzato e neo- liberismo, solo che faceva più comodo ricondurre tutto alla corruzione (che esisteva, eccome) e a protestare solo contro quella.
Lontana era la diagnosi, figuriamoci la terapia, protestammo, forse poco, probabilmente male, per assurdo rafforzammo chi avremmo dovuto demolire.
Abbiamo contestato col fumo negli occhi, arruolati in cause esse stesse abbindolate, divisi in categorie che avevano la stessa paternità.
Siamo stati virilmente anti, anti- questo, anti-quello, ma contro personaggi da operetta e peccato che la controparte fosse più o meno la stessa cosa, solo con una livrea differente, più o meno presentabile.
E poi non basta essere contro qualcosa o qualcuno per diventare alleati e perseguire lo stesso scopo, specie se il tuo presunto alleato è un bastardo.
In troppi si fidarono del cosmopolitismo (e ci si affidarono) e delle frontiere aperte – meri cavalli di Troia – e si fecero convincere dalla gabbia europeista, dalle prigione dei liberi mercati e delle privatizzazioni, insomma, da quella masnada di balle che fanno capo alle famose riforme che da quegli anni iniziarono ad incombere ed aleggiare.
Chi aveva invece intuito e vaticinato i pericoli di questa svolta erano i movimenti No global (quelli autentici, quelli nati col popolo di Seattle, non le tristi versioni sbiadite ed opportuniste) ma furono prima dipinti come violenti e facinorosi, trattati poi come vandali o teppisti e infine bollati come nemici della modernità, del benessere e della democrazia – l’epiteto nemico della democrazia in genere funziona sempre, un po’ come gli infiltrati nei cortei.
In troppi non capirono il loro messaggio, anche quelli considerati antagonisti di professione, che si smarrirono in battaglie facili, teleguidate, sterili o utili a chi avrebbe dovuto essere l’obiettivo della contestazione.
In quel decennio il potere finge di cambiare scegliendo la faccia più pulita e la casacca giusta perché si potrà permettere quello che vuole senza sforzi.
Oppure opta per il cambiamento smaccatamente gattopardesco e la gente è divisa in blocchi e fazioni che sono l’una il rovescio della medaglia dell’altro.
E così il capitalismo evoluto è libero di squarciare il culo a piacimento ed ha pure il tempo di prendere per bene la mira.
Il potere è (quasi) sempre stato avanti ai fenomeni storici ed ha intercettato e veicolato le proteste, ma è nei Novanta che per sgattaiolare e mantenere lo status quo, sceglie, quasi ufficialmente, la maschera adatta ad ogni occasione, anche quella del nemico.
In politica lo chiamano trasformismo, nella vita di tutti i giorni paraculismo.
Del potere, prima, abbiamo visto soprattutto la potenza, nei Novanta, e dai Novanta, anche il camaleontismo.
Con un’incazzatura mediamente alta ed una sana voglia di indignarsi che pareva indissolubile, resta il rimpianto di non averci provato abbastanza.
E di non aver rigettato il messaggio orwelliano di invertire la realtà delle cose.
Gli anni Novanta, ovvero speranza e delusione , sono implosi (o fatti implodere) nello stesso momento in cui sono nati.
Dove al bisogno di prosperità, serenità ed autonomia ha fatto seguito l’insediamento dell’Euro e delle sue regole opprimenti.
Dove la celeberrima libertà occidentale si è ridotta a cercare dei dittatori in giro per il Mondo senza accorgersi dei propri.
Dove ai protocolli sul clima si è affiancato un aumento sfrenato della produzione e dei consumi di merce per lo più inutile.
Dove il bisogno di scoprire oltre confine ha fatto diventare tutti apolidi.
Dove mani che si stringono blaterando di pace sono le stesse che hanno ordinano genocidi, massacri e invasioni.
Nei Novanta una iniziale ventata ha portato un polline che profumava di rivalsa e rinascita, illusione spazzata via dal tifone che farà respirare solo l’alienazione e la subalternità al profitto e alla sua macchina organizzativa.
Le ideologie che dapprima avevano unito e diviso sono state sostituite da slogan studiati a tavolino e da valori scialbi e liquidi, tanto da creare negli sfruttati i classici schiavi che invocano frusta e catene.
E’ dalla metà del nostro decennio che è andata in onda la seconda e decisiva fase del nuovo metodo di potere: cinismo, fanatico globalismo, spersonalizzazione, sradicamento, disprezzo nei confronti del sociale e del pubblico, alienazione al business, abiura delle origini.
Ci hanno finanziarizzato il pensiero, economicizzato l’anima e burocratizzato i gesti e le azioni.
La competitività è diventata un comandamento, peccato che solo testualmente faccia rima con dignità.
Dignità, ancora lei.
Ogni epoca si riflette con le rappresentazioni artistiche del proprio tempo (e viceversa), l’ultimo decennio del Novecento si era svegliato con l’ambizione dichiarata di tornare alla semplicità, alla purezza, ad un fiero minimalismo (ricercato o grezzo), di evitare inutili orpelli in nome della spontaneità, agli eccessi si preferiva la profondità, che fossero suoni, testi, trame, arrangiamenti, sceneggiature o regie.
Con le dovute eccezioni.
L’Idea che le ricette artistiche precedenti fossero da soppiantare invece era in comune coi decenni più attempati, come il vizio di gettare via l’acqua sporca ed anche il bambino.
Passato il tempo dello sballo e della provocazione tout court , icone del decennio cotonato, il talento si affidava alla rabbia, all’insofferenza, alla riflessione – presenti invero anche negli Ottanta, ma con meno sistematicità.
Il colpo di spugna inferto alla smaccata ridondanza degli Ottanta sapeva di manifesto per un nuovo corso, culturale e di costume.
E’ di questo intricato decennio l’ultimo genere musicale realmente nuovo, il grunge, nato letteralmente sottotraccia, figlio delle protesta e dell’insoddisfazione, cresciuto nel bisogno di urlare il male interiore per salvarsi la vita e di dare una rumorosa svolta a quella società, ritrovatosi famoso come i generi commerciali che disprezzava da piccolo.
Ha mandato in soffitta artisti e generi, di altri è stato (e continua ad essere) una musa ispiratrice, anche per degli autentici insospettabili.
Si pensava che l’asprezza del grunge come una carta vetrata potesse togliere il marcio che affiorava per far riemergere la linfa fresca.
Si pensava.
Impetuoso, travolgente, influente, effimero, autolesionista, la colonna sonora dei Novanta non può che essere lui, il grunge.
(Una vocina mi suggerisce che la storia non va divisa col righello, né catalogata in ferrei periodi di comodo per chi scrive, come se una qualsiasi epoca iniziasse o finisse esattamente in quel determinato anno, attribuire la paternità di un evento non è mai facile, anche le più iconiche ricorrenze sono tali perché tempo prima – magari un tempo di altra epoca – si sono create le condizioni affinché quell’evento si materializzasse.
Mi dice ancora la vocina, per corroborare ed esemplificare la sua tesi, che il grunge è sì esploso nei Novanta, ma di fatto è nato qualche anno prima.
Bisogna sempre ascoltarle le vocine)
Quindi, la qualità c’era, ma anche qui il decennio non smentì la propria ambivalenza perché nel bilancio finale non mancheranno parecchie voci di assoluta mediocrità o di inutile ridondanza.
E nei Novanta capitava anche che le favole si dissolvessero, magari sul più bello, e anche gli eroi cadessero, magari definitivamente, e nella rapidità della capitolazione, e nel lasso di tempo fra il successo e la sconfitta c’è tutta l’essenza di quei dieci anni.
I Novanta sono Ayrton Senna che si schianta ad Imola per un cedimento al piantone dello sterzo.
Sono Freddy Mercury che muore di AIDS.
Sono l’Italia che getta via due Mondiali ai rigori (forse tre).
Sono Marco Van Basten che gioca la sua ultima partita a 28 anni per i guai alla caviglia.
Sono Kurt Cobain che a 27 si suicida.
In compenso nacquero i programmi televisivi urlati e di conseguenza gli sbraglioni di professione ed anche la politica imboccò senza indugi la via della spettacolarizzazione (un ossimoro, visti i personaggi in campo), nei media iniziò una fase di morbosità che con la scusa dell’audience, o delle copie vendute, traslocò anche nella vita di tutti i giorni e a forza di evoluzioni tecnologiche non separerà più il pubblico dal privato, la condivisione dalla riservatezza, l’ego dalla vergogna.
Dalla maglietta fina e stretta si passò a maglioni e camicie tre taglie più larghi del dovuto (grazie grunge!), dove per immaginare qualcosa (qualcosa, figuriamoci tutto) ci voleva altro che una fervida fantasia.
Ma chi se ne frega, da allora possiamo comunicare come vogliamo, da dove vogliamo e in quanti vogliamo.
Unica condizione richiesta: essere soli.
E’ la tecnologia, bellezza.
Ad ogni prodotto multimediale che veniva lanciato sul mercato le strade, le piazze ed i bar si svuotavano un po’ di più.
Oggi non c’è tanta gente in giro fuori, nei primi Novanta ce n’era decisamente di più, anche di martedì.
I Novanta hanno accolto l’ultima generazione di ragazzi analogici, quelli che le emozioni preferivano prima viverle piuttosto che immortalarle in una foto, quelli che i ricordi non li hanno salvati in una chiavetta USB ma se li portano dentro tutti perché autentici, avevano una sorpresa nel sapere chi ci sarebbe stato e chi no nel ritrovo, lo squillo del telefono (di casa) poteva far battere il cuore, sono stati gli ultimi a spedire una cartolina, a scrivere una lettera, e a sperare di riceverle (e a godere nel riceverle), creavano le loro compilation su musicassetta con degli strani rumori fra un pezzo e l’altro, per se stessi e per gli amici, e per quelle che speravano divenissero più di amiche, gli album musicali erano prima agognati, poi frustati, ma sempre custoditi con cura, le loro compagnie erano numerose, più delle chat di oggi, con la differenza che allora l’obiettivo era il contatto, oggi il contatto è solo una funzione della rubrica del telefono.
Siamo stati fortunati, noi, ad essere quei ragazzi.
Da allora abbiamo avuto sempre più opportunità, più occasioni, più possibilità, più tutto, ma per star bene dobbiamo filtrarle, rigettarle, selezionarle.
La qualità della vita ci è migliorata solo se siamo noi a gestirla, fattispecie non sempre così scontata.
E così semplice.
Cosa resterà degli anni Novanta?
Una prima parte, di autentico fermento.
Una seconda, di autentica fermentazione , il traghettamento verso gli inutili Duemila.
Una splendida incompiuta, tanto illusori quanto raggirati loro stessi, complessati da quel conflitto interiore mai sopito fra svoltare ad U e imboccare una faticosa salita o proseguire in una discesa, ma col burrone, alla fine la mancata decisione pesa più di quella presa.
Un desiderio di cambiamento tramutato mestamente in ratifica della restaurazione, anni iniziati da incendiari e finiti col Tamagotchi.
Gli Anni Novanta sono un fotogramma sempre nitido.
Stai per toccare con un dito il cambiamento, ma ti sfugge.
E sai che quell’occasione non tornerà più.
Superclassifica Show
6 OttTempo fa un’amica di Facebok, di qualche anno più giovane di me, scrisse un post che recitava più o meno così “Ho scoperto di adorare i Pink Floyd, mi sono messa ad ascoltare la musica delle persone grandi!”
Sensazionalismo non pervenuto,ricerca di like assente, poca propaganda, tanta introspezione: insomma, apprezzai molto la riflessione – probabilmente per una convergenza di percorsi musicali – e con la curiosità di uno che intuiva ci sarebbe stato del materiale da sociologia spiccia, mi misi a scorrere i commenti.
Quello di leggere i commenti su Facebook, a prescindere da cosa verta la questione, è un attività che potremmo catalogare fra le antinomie: è oggettivamente tempo perso ma è altresì un termometro oltremodo preciso per misurare la deriva cognitivo comportamentale della società.
Messi davanti al più disparato argomento, o ad una semplice proposizione, la gente si comporta come nella vecchia pubblicità di una famosa merendina, dove al protagonista si chiudeva letteralmente la vista a causa della fame.
(Mi scuso per l’esempio d’antan ma non sono più un gran divoratore di televisione).
Qui la fame non c’entra – anzi, mangiamo pure troppo! – ma il tasso di lucidità e acume speso nei social raggiunge le stesse vette.
Cioè il rasoterra.
E per qualcuno i social e la vita reale sono due sinonimi, due ambienti talmente fungibili da risultare perfettamente sovrapponibili, dove però i primi hanno estirpato l’essenza della seconda insediando i propri tratti somatici e cancellando senza nessuna remora tutto ciò che non gli si confà.
Il social non riempie una parte della vita, il social ha invaso la vita, l’ha fagocitata, nessun prigioniero, tutti ostaggi.
E’ anche per questo che non tolgo certe amicizie su Facebook di persone che in comune con me hanno giusto il funzionamento dell’apparato respiratorio nonostante mi infastidiscano più del polline in un maggio ventoso: sì, perché passata l’iniziale rosga da compatimento e tirato quel paio di doverose bestemmie, costoro mi aggiornano su dove siamo arrivati in termini di massificazione, alienazione del pensiero e pigrizia mentale.
Sono pochi – devono essere pochi, pochissimi, ogni tanto il ripulisti su Facebook è un autentico salvavita – ma paradigmatici, la perfetta mimesi di una società liquida e rigida, libertaria eppure tanto opprimente, emancipata ma eterodiretta.
Il titolo di studio, le conoscenze, il background e la cultura, lo scibile, non c’entrano nulla, si tratta dell’atteggiamento scelto per stare al Mondo: darsi la possibilità di muovere testa e piedi come e dove vogliamo o farsi scavare una buchetta in apparenza comoda e pure coinvolgente su cui appoggiare il culo per poi non spostarlo più, ma credendo di poterlo fare.
Il commento che cercavo era un po’ nelle retrovie, ma c’era: inutilmente tronfio, arbitrario, grondante di superbia come solo un concetto decontestualizzato buttato lì alla cazzo di cane può essere.
Lo sconosciuto chiosava, pressappoco, un serafico “I migliori sono gli U2, nessuno è come loro”.
Ricordo che scossi ripetutamente il capo sorridendo amaramente, quasi volessi col movimento della testa cancellare quell’uscita, eliminarla, ripetendo un lavacro t’an po mia (non puoi mica in dialetto), ignorando ingenuamente che anche se ci fossi riuscito mille altri commenti simili avrebbero contemporaneamente invaso (e infestato) sterminate pagine del social più famoso al mondo.
Transitarono nella mia testa una raffica di considerazioni, mi sentivo come un tizio posizionato dietro un guard rail e loro (le considerazioni) sembravano tante auto che sfrecciavano una dietro l’altra a poca distanza da me, non faceva in tempo ad esaurirsi l’eco di una, che già appariva quella successiva in un ciclo continuo.
Di primo acchito pensai che a giocare coi Pink Floyd a chi ce l’ha più duro si rischia di uscire come uno che vuole sbancare il Casinò, o semplicemente è un atteggiamento che ricorda quel tale che voleva insegnare ai gatti a rampare.
Subito dopo immaginai di avere dinanzi a me l’uomo della sentenza, visto che la mia invettiva da tempo insisteva per fare conoscenza di tipi come lui.
Perché hai tirato fuori gli U2 – che qui si stava parlando di tutt’altro, della metamorfosi musicale di una ragazza al cospetto di una band che ha rivoluzionato la musica e a cui la Storia ha chiesto arrossata un autografo con dedica?
(Sia detto senza ambiguità, anche gli U2 hanno fatto cose pazzesche, poi, che io non riesca più ad ascoltare i loro lavori da un ventennio, un po’ per quello che producono, un po’ per quel filantropone del loro leader, rimane una questione fra me e me).
Non ce la fai a scrivere un commento su qualcosa che esuli dai tuoi idoli senza nominarli?
Se non ci sono i tuoi beniamini, non si può andare avanti?
Guarda che non ti è vietato apprezzare (giustamente) gli U2 assieme ad altri musicisti, e non per forza i Floyd – il proselitismo non mi ha mai arruolato tra le sue file – lungi da me giocare al purista, potresti amare allo strenuo anche Jem e le Holograms, i Righeira e Pietro Galassi e ti farebbe solo bene così avresti perlomeno allargato gli orizzonti, dove cazzo hai letto che si deve apprezzare un solo artista nella vita, nelle istruzioni di una crema rettale?
Non accontentandoti di professarlo, perché diffondi urbi et orbi il tuo fanatico monoteismo?
Abbandonalo e diventa un po’ più pagano!
Nel commento del tizio si fondevano tracce di tifo, egocentrismo, incasellamento, e di quel fenomeno che gli esperti del commerciale chiamano clusterizzazione, termine involontariamente onomatopeico, tant’è che a me ricorda la parola clistere.
Quel commento è il figlio unico del Tutto che deve seguire un format da approfondimento pay tv, o da sondaggio pagina Facebook.
Si deve stanare il tifoso, aizzarlo, trasformare a sua volta l’appassionato in tifoso e ricondurre tutti nell’architettura più controllabile e dal facile audience, ed ecco servita la stortura della classifica-mania.
Stuzzicare l’animosità ed il bisogno di idoli crea un esercito pugnace da dividere in fronde che garantisce cieca fedeltà, obbedienza ed esecuzione di lavori più o meno sporchi.
L’arte, lo spettacolo, lo sport – essenze di per sé libere ed incomprimibili – devono essere catalogate e declinate, quelli del marketing sono stati chiari.
Per ogni disciplina ci vuole la classifica generale, del momento, di tutti i tempi, divisa per decenni, poi di ogni categoria, ruolo e di genere.
Gustarsi lo spettacolo senza fare confronti e senza stilare classifiche a getto continuo appare ormai dissacrante, demodè, controfattuale, anche il lessico non prescinde da epiteti iperbolici che conducono ad una dimensione di perenne bombardamento mediatico (in nome dei like e dai followers) impregnata dei nuovi mali che ci stanno portando alla nevrosi: la competitività e la visibilità.
Siamo in gara, anche quando non lo sappiamo, e vogliamo che la nostra personale classifica primeggi su quella degli altri, non sappiamo più discutere senza che una flotta di graduatorie pronto uso ci appaia nel cervello alla stregua di un menu a tendina e friggiamo se gli altri non ne vengono a conoscenza.
Il commento è anche un pretesto per esternare, in quella che hanno spacciato essere una conversazione, le proprie convinzioni senza preoccuparsi minimamente che qualcun’altro possa partorire delle opinioni degne della nostra, una evidente sublimazione di onnipotenza, l’ostentazione di un’infingarda libertà di espressione che certifica la solitudine e l’isolamento delle comunità virtuali.
Assomiglia allo scambio di persona, si confonde la competenza con lo snocciolare inutili dati statistici, alla passione si preferiscono amenità imparate a memoria, la tecnica è sostituita dal bieco tifo, e come risultato si generano tanti Sapientino e si annientano altrettanti intenditori, perché agli occhi di uno sprovveduto, di un inesperto, o di un ragazzo, chi erige queste riverberanti classifiche sarà sempre uno da venerare ed imitare, lui detiene la clava di questa era geologica, e che sia un incompetente e spesso un idiota è un dettaglio che non passerà agli atti.
Perdiamo tempo a rincorrere improbabili duelli artefatti, a pensare in che posizione veleggia il nostro idolo, e ci perdiamo l’attimo, il momento, la gioia di ammirare un talento, la purezza di un gesto, la magia di una creazione, il sublime gusto della contemplazione.
Detestiamo il rivale inventato e ci perdiamo tutto di lui perché qualcuno lo ha messo alla nostra personale berlina.
Non solo: si disincentiva la ricerca di chi, in quella classifica occupa le posizioni di coda, o chi non ci metterà mai piede, ma qualcosa da farsi ammirare ce l’ha eccome, anche se non ha vinto, se non ha sbancato le classifiche o se non ha una collezione di Oscar in camera.
Per la serie Avere la possibilità di scoprire il globo e farsi rinchiudere in un anfratto.
Se la smettessimo con quelle classifiche saremmo tutti noi a balzare in vetta.
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