Capita quando siamo assorti, con l’inconscio alleggerito da petulanti zavorre e la mente in permesso temporaneo ad esplorare le più svariate altitudini e ad affrontare altrettanti dislivelli.
In auto, in auto è un classico – la presenza o meno di passeggeri è un dato perfettamente inutile.
Quando siamo soli, e gioia o tristezza che sia, noi stessi non bastiamo.
In ambo i casi.
In compagnia, la compagnia effettivamente predispone.
Oppure quando l’adrenalina gira a pressioni così elevate da cercare uno sfiato.
Ai bambini che vogliono fare i grandi, ai bambini che diventano grandi, ai bambini che fanno i bambini, ai grandi che diventano grandi, ai grandi che provano a recuperare i bambini dispersi in loro.
Quando vogliamo evadere, evidentemente manca sempre un pezzetto di libertà.
Poi quando vogliamo farci genericamente del bene, senza un apparente motivo, anche perché non è richiesto un motivo per voler stare bene, esistono invece soluzioni quasi infallibili per riuscirvi.
Ma ci capita in infinite altre occasioni.
Ci capita continuamente, si diceva: ovvero di emettere suoni e rumori metrici, di eseguire un acuto, di partorire una melodia, di ripetere quel ritornello meccanicamente, di ascoltare brani, album, raccolte e altre caterve di piccoli gesti ed azioni che sono l’anello di congiunzione per entrare in contatto con la musica.
A pensarci bene, se lasciamo le sovrastrutture nel cesto della biancheria sporca e cacciamo la razionalità in castigo nel cantone più lontano, possiamo scorgere la musica ovunque: nel nostro respiro, nella cadenza dei nostri passi, nel ticchettio di qualcosa, nel vento, in un corso d’acqua, nel suono di un motore, nel riavvolgersi di una tapparella, in un gingillo elettronico, nelle nostre parole.
Penso che l’uomo non abbia inventato la musica, la musica si è fatta viva perché è parte di esso, solo un pò in disparte come la raffinatezza suggerisce, sottotraccia per farsi un pò desiderare, veleggiando sempre in quell’ombra fra il per tutti e il per pochi, per approdare nel per chi la vuole, o nel per chi la merita.
Anche coloro che uno spartito non saprebbero da che verso guardarlo – e di accordi conoscono solo quelli elettorali – sentono un ancestrale bisogno di musica, un richiamo irrefutabile, piacevole perché spontaneo, intrigante giacché misterioso, inspiegabile quindi ammaliante.
Ecco perché anche chi non ha mai preso in mano uno strumento in vita sua, nell’occasione giusta ti esce fuori mimando tanto un assolo di chitarra quanto un gesto con la bacchetta, con la contagiosa disinvoltura del più consumato rocker o direttore d’orchestra.
Se proviamo ad ingabbiare la musica con parametri ingegneristici lei schizzerà via come una saponetta bagnata; se la spremiamo per sentire solo il tintinnio dell’argent se ne risentirà, indispettita; se la trattiamo come un’entità mistica perderà la sua immanente e vitale sostanza umana, straniandosi.
Lei, da aulica ed intraprendente compagna di vita, è predisposta ad infilarsi nei più sperduti anfratti e desiderosa vieppiù di riverberarli con il suono della sua voce.
Veicola rabbia, sfogo, rilassa, carica, ispira.
Quando ascoltiamo quell’ineffabile mosaico di suoni è facile passare in un atmosfera parallela, a volte per puro piacere, a volte come difesa per proteggere un momento etereo e per metterci sopra la nostra ipoteca.
La musica è la risposta ad una domanda che non conosciamo, ma che pronunciamo spesso; è la soluzione di un bisogno innato; è la necessità di persone, ma da un’altra prospettiva.
La musica incarna il rapporto con quella cosa astratta e tangibile che è il tempo, noi siamo fatti di tempo, viviamo per il tempo e contro il tempo, rincorriamo ed insieme respingiamo quello futuro come quello passato.
Al pari dei sensi, la musica è una fucina inesauribile di ricordi a ripetizione, e con la musica di occasioni ne hai tante: una ragazza, una persona che non c’è più, una gita, l’infanzia, una baracca, un’estate, un periodo di merda ed uno in cui ti sentivi un satanasso.
E’ un talismano per saper rivivere il passato, per ricreare una situazione, o simularla, è l’abbrivio per predisporre il futuro, la musica, ovvero note che si staccano dal pentagramma dello spirito, una nostra proiezione che intercetta quelle altrui, un puro rigurgito d’umanità di noi che siamo sempre tropo poco umani.
Sono in pochi a saper raccontare icasticamente ogni epoca come lei, a riuscire ad essere il primo sinonimo di un determinato periodo, probabilmente perché la musica visceralmente non si accontenta di fare da cappello ad un periodo, lei vuole possederlo e voluttuosamente darsi in cambio, talvolta è la predatrice – e riesce realmente a muovere quel decennio e a dargli la sua impronta e costringere gli altri ad adeguarsi, inseguire e far correre la mente – ma capita anche che sia sopraffatta, manipolata e diventi il megafono di istanze di cui lei stessa si vergogna.
Se la musica è apoditticamente parte di noi non deve stupire che nel rapporto con essa si possano rivedere gli stessi meccanismi ed approcci che intercorrono fra gli esseri umani con annesse alchimie – un associazionismo da comuni origini – a volte capiamo quello che abbiamo davanti, a volte no, a volte ci sforziamo di farlo, altre volte nemmeno facciamo il gesto di provarci ed altre volte ancora ogni tentativo risulta vano.
Siamo, in ambo le relazioni, attratti dai nostri simili salvo poi farci fregare da qualcuno che evidentemente non lo era così tanto, il fastidio a ciò che è avverso lascia la sua dose urticante di scorie e tossine ma prima o poi il destino non ci impedisce di incontrare se non quello giusto, perlomeno quello attinente.
Gli astri, la sfiga, una macumba o il karma difettoso (cit.) hanno giocato a non farci mai incontrare una persona, come un genere musicale, come un artista, per anni ne ignoriamo l’esistenza, o lo evitiamo accuratamente, salvo poi scoprirlo per accorgersi di come basti così poco per cambiare così tanto e di come la scoperta fosse vicino a noi, probabilmente tutti i giorni veniva incrociata e magari anche sfiorata – tra la palingenesi e lo status quo può essere davvero una questione di attimi, o di centimetri.
La buona musica e le belle persone credo arrivino nel momento giusto per essere vissute ed apprezzate, esattamente come gli afflati che ci guidano verso nuove rotte e verso nuovi io, qui i rimpianti non meritano nemmeno di essere disturbati perché l’attimo ed il momento hanno la stessa valenza della scoperta e dei suoi effetti.
La musica è il biglietto per un viaggio che porta ognuno in posti diversi, l’approfondimento e le virate per assaporare le sue sfumature sanno di rinascita, emancipazione, consapevolezza, abiura, conversione.
Quelle sette note con tanto intorno sono un internet ante litteram per aprire mondi e spazi infiniti che non rimangono scollegati coi nostri, assomigliano ad una sirena che anziché portarti a sbattere ti fa approdare in lidi fecondi.
Pleonastico dire che la musica sia la colonna sonora della nostra vita, meno che la vita è la colonna sonora di se stessa, a volte ha solo bisogno un interprete, perché l’autore c’è sempre.
C’è chi ascolta solo determinata musica, chi è eclettico, chi ascolta musica di merda: se qualcuno non riesce a trovare la propria, diffidate di lui.
Ad affermare che la canzone sia l’apogeo della musica si rischia di entrare nel più scorbutico dei gineprai, ad insignirla del titolo di perfetta opera d’arte non si corre invece il pericolo di attirare strali per atteggiamento oltremodo empio ed ignominioso.
Come le più ricercate forme d’arte la canzone riesce a catturare e ad isolare il suo ascoltatore creando un magnetico rapporto simbiotico e, magia dell’arte, sempre diverso l’uno dall’altro.
La pelle d’oca, anche gli occhi inusitatamente lucidi, perché no, tradiscono la percezione di un humus vitale che solletica la stessa vitale sostanza ancora sparsa nell’anima – che si tratti del primo ascolto o quando di una canzone conosciamo a memoria anche i respiri.
C’è quella di chi l’ha scritta, quella di chi l’ha arrangiata, quella di chi l’ha eseguita, quella di chi l’ha ascoltata e quella di chi l’ha vissuta, fatto sta che in tutti questi passaggi la sensibilità che ognuno ha profuso non viene minimamente scalfita e nei travasi nemmeno una sua goccia svanisce nel nulla.
Parossistica, nella fervente attesa di un acme che dura troppo poco, libidinosa, nel volerla gustare fino all’ultimo secondo, la canzone è un emozione che vorremmo intrappolare, cristallizzare, reiterare, ma la sua fine è l’inizio di un nuovo desiderio ed è proprio la voglia di riviverlo a concupirci.
E’ un antidoto senza gli effetti collaterali delle medicine, una fonte di energia che non produce scorie né inquina, è potenza in assenza di autoritarismo.
La canzone è un filosofo popolare, uno psicologo che non intimorisce, un saggio non pedante, un folle assennato, un fragile che guida.
E’ molto più ampia del suo testo e della sua musica, va letta fra le righe, va allungata, gonfiata, collegata, va tuffata, pochi minuti possono celare intere esistenze.
Certi brani, come certe persone, danno tutto dall’inizio alla fine e regalano vita, certi altri sono banali sempre e producono inutilità.
Per ogni canzone grimaldello di una nuova sfera, ce n’è pronta almeno un’altra animata dagli stessi buoni propositi, il problema casomai è trovare il tempo per accoglierle tutte.
Altre canzoni, proprio come altre persone, ti appaiono ormai distanti, meglio non riascoltarle – o la delusione sarebbe forte – meglio il lontano e tutto sommato piacevole ricordo di una triste riscoperta che lo andrebbe ad infeltrire.
Diversamente, a riascoltarle, risulterebbero diverse da come le ricordavi, proprio come quelle persone se ti rimettessi a frequentarle.
Diversa lei (diverse loro), ma diverso anche tu, che cerchi quello che prima non cercavi.
Col tempo, con qualche disco sulle spalle e con l’orecchio più aggraziato, ammetti di aver ascoltato anche una pletora di schifezze, poco male, per scoprire il bello occorre partire dal brutto, per arrivare al raffinato bisogna passare dal grezzo e lo stesso grezzo si può impunemente indossare, basta solo non vestirsi sempre e solo di quello.
Le canzoni servono tutte, impegnate, leggere, profonde, cazzare, demenziali, commerciali e di nicchia, per saltare e per pensare, ognuna è un mosaico di quello specchio chiamato società che si riflette poi dentro di noi.
(Oddio, sono stato troppo tollerante, facciamo che servono quasi tutte, la roba che passano oggi proprio non riesco, ma quella non è musica e quelle non sono canzoni).
Ovvio che ti senti più ganzo quando hai avuto certe intuizioni scoprendo quelli giusti con lauto anticipo, e stai lisciando ancora il tuo sesto senso per quelle soffiate.
O quando hai realizzato di essere al cospetto di generi e di artisti imperituri.
Ma dovremmo sempre di più abituarci ad ascoltare la musica e meno il musicista, a soffermarci sulla canzone e meno sul cantante.
La canzone vibra continuamente tra realtà e sogno, fra concreto e fantasia, basta un passo per spostarsi di qua e di là, basti tu per rimanere su quel confine, non per sempre, ma almeno per un pò.
E tira fuori qualcosa che è in noi, ma che senza di lei rimarrebbe intanata lì, col rischio di ammuffire.
Brani e persone: capita che una pezzo assomigli alla tua storia, a volte vorresti che lo fosse, a volte ti racconti che sia così.
Brani e persone: onde, vibrazioni vaganti che vogliono essere ascoltate ed intercettate, bussano, solleticano, finché non gli apri.
Poi capita che ti innamori di una canzone senza motivo, non sai bene perché, è strano, all’inizio quasi ti stupisci.
E magari poi quella diventa la canzone della tua vita.
Brani e persone.
Superclassifica Show
6 OttTempo fa un’amica di Facebok, di qualche anno più giovane di me, scrisse un post che recitava più o meno così “Ho scoperto di adorare i Pink Floyd, mi sono messa ad ascoltare la musica delle persone grandi!”
Sensazionalismo non pervenuto,ricerca di like assente, poca propaganda, tanta introspezione: insomma, apprezzai molto la riflessione – probabilmente per una convergenza di percorsi musicali – e con la curiosità di uno che intuiva ci sarebbe stato del materiale da sociologia spiccia, mi misi a scorrere i commenti.
Quello di leggere i commenti su Facebook, a prescindere da cosa verta la questione, è un attività che potremmo catalogare fra le antinomie: è oggettivamente tempo perso ma è altresì un termometro oltremodo preciso per misurare la deriva cognitivo comportamentale della società.
Messi davanti al più disparato argomento, o ad una semplice proposizione, la gente si comporta come nella vecchia pubblicità di una famosa merendina, dove al protagonista si chiudeva letteralmente la vista a causa della fame.
(Mi scuso per l’esempio d’antan ma non sono più un gran divoratore di televisione).
Qui la fame non c’entra – anzi, mangiamo pure troppo! – ma il tasso di lucidità e acume speso nei social raggiunge le stesse vette.
Cioè il rasoterra.
E per qualcuno i social e la vita reale sono due sinonimi, due ambienti talmente fungibili da risultare perfettamente sovrapponibili, dove però i primi hanno estirpato l’essenza della seconda insediando i propri tratti somatici e cancellando senza nessuna remora tutto ciò che non gli si confà.
Il social non riempie una parte della vita, il social ha invaso la vita, l’ha fagocitata, nessun prigioniero, tutti ostaggi.
E’ anche per questo che non tolgo certe amicizie su Facebook di persone che in comune con me hanno giusto il funzionamento dell’apparato respiratorio nonostante mi infastidiscano più del polline in un maggio ventoso: sì, perché passata l’iniziale rosga da compatimento e tirato quel paio di doverose bestemmie, costoro mi aggiornano su dove siamo arrivati in termini di massificazione, alienazione del pensiero e pigrizia mentale.
Sono pochi – devono essere pochi, pochissimi, ogni tanto il ripulisti su Facebook è un autentico salvavita – ma paradigmatici, la perfetta mimesi di una società liquida e rigida, libertaria eppure tanto opprimente, emancipata ma eterodiretta.
Il titolo di studio, le conoscenze, il background e la cultura, lo scibile, non c’entrano nulla, si tratta dell’atteggiamento scelto per stare al Mondo: darsi la possibilità di muovere testa e piedi come e dove vogliamo o farsi scavare una buchetta in apparenza comoda e pure coinvolgente su cui appoggiare il culo per poi non spostarlo più, ma credendo di poterlo fare.
Il commento che cercavo era un po’ nelle retrovie, ma c’era: inutilmente tronfio, arbitrario, grondante di superbia come solo un concetto decontestualizzato buttato lì alla cazzo di cane può essere.
Lo sconosciuto chiosava, pressappoco, un serafico “I migliori sono gli U2, nessuno è come loro”.
Ricordo che scossi ripetutamente il capo sorridendo amaramente, quasi volessi col movimento della testa cancellare quell’uscita, eliminarla, ripetendo un lavacro t’an po mia (non puoi mica in dialetto), ignorando ingenuamente che anche se ci fossi riuscito mille altri commenti simili avrebbero contemporaneamente invaso (e infestato) sterminate pagine del social più famoso al mondo.
Transitarono nella mia testa una raffica di considerazioni, mi sentivo come un tizio posizionato dietro un guard rail e loro (le considerazioni) sembravano tante auto che sfrecciavano una dietro l’altra a poca distanza da me, non faceva in tempo ad esaurirsi l’eco di una, che già appariva quella successiva in un ciclo continuo.
Di primo acchito pensai che a giocare coi Pink Floyd a chi ce l’ha più duro si rischia di uscire come uno che vuole sbancare il Casinò, o semplicemente è un atteggiamento che ricorda quel tale che voleva insegnare ai gatti a rampare.
Subito dopo immaginai di avere dinanzi a me l’uomo della sentenza, visto che la mia invettiva da tempo insisteva per fare conoscenza di tipi come lui.
Perché hai tirato fuori gli U2 – che qui si stava parlando di tutt’altro, della metamorfosi musicale di una ragazza al cospetto di una band che ha rivoluzionato la musica e a cui la Storia ha chiesto arrossata un autografo con dedica?
(Sia detto senza ambiguità, anche gli U2 hanno fatto cose pazzesche, poi, che io non riesca più ad ascoltare i loro lavori da un ventennio, un po’ per quello che producono, un po’ per quel filantropone del loro leader, rimane una questione fra me e me).
Non ce la fai a scrivere un commento su qualcosa che esuli dai tuoi idoli senza nominarli?
Se non ci sono i tuoi beniamini, non si può andare avanti?
Guarda che non ti è vietato apprezzare (giustamente) gli U2 assieme ad altri musicisti, e non per forza i Floyd – il proselitismo non mi ha mai arruolato tra le sue file – lungi da me giocare al purista, potresti amare allo strenuo anche Jem e le Holograms, i Righeira e Pietro Galassi e ti farebbe solo bene così avresti perlomeno allargato gli orizzonti, dove cazzo hai letto che si deve apprezzare un solo artista nella vita, nelle istruzioni di una crema rettale?
Non accontentandoti di professarlo, perché diffondi urbi et orbi il tuo fanatico monoteismo?
Abbandonalo e diventa un po’ più pagano!
Nel commento del tizio si fondevano tracce di tifo, egocentrismo, incasellamento, e di quel fenomeno che gli esperti del commerciale chiamano clusterizzazione, termine involontariamente onomatopeico, tant’è che a me ricorda la parola clistere.
Quel commento è il figlio unico del Tutto che deve seguire un format da approfondimento pay tv, o da sondaggio pagina Facebook.
Si deve stanare il tifoso, aizzarlo, trasformare a sua volta l’appassionato in tifoso e ricondurre tutti nell’architettura più controllabile e dal facile audience, ed ecco servita la stortura della classifica-mania.
Stuzzicare l’animosità ed il bisogno di idoli crea un esercito pugnace da dividere in fronde che garantisce cieca fedeltà, obbedienza ed esecuzione di lavori più o meno sporchi.
L’arte, lo spettacolo, lo sport – essenze di per sé libere ed incomprimibili – devono essere catalogate e declinate, quelli del marketing sono stati chiari.
Per ogni disciplina ci vuole la classifica generale, del momento, di tutti i tempi, divisa per decenni, poi di ogni categoria, ruolo e di genere.
Gustarsi lo spettacolo senza fare confronti e senza stilare classifiche a getto continuo appare ormai dissacrante, demodè, controfattuale, anche il lessico non prescinde da epiteti iperbolici che conducono ad una dimensione di perenne bombardamento mediatico (in nome dei like e dai followers) impregnata dei nuovi mali che ci stanno portando alla nevrosi: la competitività e la visibilità.
Siamo in gara, anche quando non lo sappiamo, e vogliamo che la nostra personale classifica primeggi su quella degli altri, non sappiamo più discutere senza che una flotta di graduatorie pronto uso ci appaia nel cervello alla stregua di un menu a tendina e friggiamo se gli altri non ne vengono a conoscenza.
Il commento è anche un pretesto per esternare, in quella che hanno spacciato essere una conversazione, le proprie convinzioni senza preoccuparsi minimamente che qualcun’altro possa partorire delle opinioni degne della nostra, una evidente sublimazione di onnipotenza, l’ostentazione di un’infingarda libertà di espressione che certifica la solitudine e l’isolamento delle comunità virtuali.
Assomiglia allo scambio di persona, si confonde la competenza con lo snocciolare inutili dati statistici, alla passione si preferiscono amenità imparate a memoria, la tecnica è sostituita dal bieco tifo, e come risultato si generano tanti Sapientino e si annientano altrettanti intenditori, perché agli occhi di uno sprovveduto, di un inesperto, o di un ragazzo, chi erige queste riverberanti classifiche sarà sempre uno da venerare ed imitare, lui detiene la clava di questa era geologica, e che sia un incompetente e spesso un idiota è un dettaglio che non passerà agli atti.
Perdiamo tempo a rincorrere improbabili duelli artefatti, a pensare in che posizione veleggia il nostro idolo, e ci perdiamo l’attimo, il momento, la gioia di ammirare un talento, la purezza di un gesto, la magia di una creazione, il sublime gusto della contemplazione.
Detestiamo il rivale inventato e ci perdiamo tutto di lui perché qualcuno lo ha messo alla nostra personale berlina.
Non solo: si disincentiva la ricerca di chi, in quella classifica occupa le posizioni di coda, o chi non ci metterà mai piede, ma qualcosa da farsi ammirare ce l’ha eccome, anche se non ha vinto, se non ha sbancato le classifiche o se non ha una collezione di Oscar in camera.
Per la serie Avere la possibilità di scoprire il globo e farsi rinchiudere in un anfratto.
Se la smettessimo con quelle classifiche saremmo tutti noi a balzare in vetta.
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