(Articolo scritto grazie al contributo di Daniele Cassinadri e Cristian Martinelli)
Solo gli occhi degli stolti e dei disinformati (tipologie che possono anche coincidere) non riescono a vedere che la situazione economica attuale è tutto fuorché casuale e che è possibile individuare le cause ed i rimedi, con la sola penitenza di essere riempiti di epiteti quali gufo, disfattista, populista, fino a terminare l’empia lista.
Ma quelli che non vogliono annegare nel mare magnum del pensiero unico e sentono di dover sfidarne le onde e le correnti, dovranno allargare gli orizzonti facendo propria la tesi per cui un fenomeno – anche questo, che è di stampo prettamente economico – non si può affrontare solo con argomentazioni ed approcci endogeni alla categoria.
Cercare un colpevole – e qui c’è, si chiama neo-liberismo con tutte le applicazioni al seguito – non dev’essere un alibi da tenere nel taschino pronto uso e non deve nemmeno esimerci da quelle attività tanto imprescindibili quanto faticose che sono l’autodiagnosi e l’osservazione attiva e critica di ciò che ci circonda.
E’ vero, un pezzetto alla volta ci stanno rubando il futuro, deflagrando i diritti che altri avevano ottenuto e riportando i rapporti di forza a livelli ottocenteschi (se non più addietro) ma di contraltare (e per una contraddizione insita nell’economia moderna) agli oppressi – che sono sfruttati, bistrattati, umiliati, derisi, calpestati e malpagati – manca uno spirito di sacrificio.
Non a tutti, non a tutti nello stesso modo, diciamo in media, più una certa deviazione standard.
E gli oppressi mica devono essere ricercati solo fra gli indigenti senza un tetto ed un lavoro, no signore, ma anche fra coloro che credono di aver migliorato la propria condizione, ma solo perché del loro praticello ammirano i fili d’erba, senza nemmeno alzare lo sguardo a vedere l’aria che li sovrasta di che colore è.
Gli oppressi siamo tanti e se, oniricamente, dipendesse solo dalla nostra volontà, dalla nostra abnegazione, dalla nostra disponibilità a rinunciare a qualcosa oggi con la certezza di costruire delle solide e durature basi per il domani, sapremmo uscire da questa palude e virare verso lidi più favorevoli?
Non ne sono così convinto.
Per diversi motivi.
Il primo: l’attuale architettura economica, dopo l’infatuazione del rodaggio e ed un senso iniziale di ebbra onnipotenza, porta alla disillusione, all’annientamento, all’alienazione, al nichilismo; sbattersi oggi (da dipendente, da artigiano, anche da imprenditore) ha qualcosa in comune con la fatica di Sisifo.
In quest’ingranaggio che si auto-genera e che non sembra ammettere granelli di sabbia al suo interno,un impegno indefesso può apparire a più d’uno come un assist al carnefice-capitale, che irrobustisce la fonte dei mali e lascia solo le briciole.
Si potrebbe controbattere articolando ragionevoli motivazioni, ma le istanze portate a corredo della loro idea non sarebbero da meno.
Si parte da un autodifesa, dal concetto di resilienza e resistenza ad un mostro economico, ma l’effetto collaterale è di perdere del mordente, quella spinta rutilante che aiuta a sverniciare i problemi, quel sano rimboccarsi le maniche spendibile in tutte le pieghe della vita.
Secondo motivo: avere vissuto l’adolescenza in anni comodi ha idealmente formato una bambagia fra noi ed il mondo, un cuscinetto che ha ammorbidito le sconnessioni, sì, ma anche il carattere.
Adesso ognuno di voi penserà ad uno o più comportamenti che lo esenti dall’ultima affermazione, ovviamente il culo se lo fanno in tanti, ma se i nostri genitori 50 anni fa fossero stati proiettati nei giorni giorni patirebbero meno la crisi e l’affronterebbero con un piglio differente, forse perché impermeabili alle trappole di oggi, loro che videro davvero la miseria.
Per non parlare se noi finissimo sparati dritti nel dopoguerra…
I nostri genitori, conoscendo di persona la fatica, hanno cercato di evitarcela sognando per noi lavori di concetto più che di braccia, amorevoli pensieri che sommati al contesto hanno generato in noi aspettative un pò pretenziose e quantomeno rigide.
Ci siamo adagiati sopra un sistema che non ci sta cullando.
Infine, c’è una fetta di gente che abbraccia un’intera generazione che ancora non si è ripresa dalla sbornia dell’epoca Jerry Calà (cit.), periodo che sarebbe stato ottimo come suppellettile ma che qualcuno ne ha fatto l’architrave della propria vita.
Se allora contestare quell’american way of life era arduo, oggi il bisogno di un ritorno alla sobrietà (o comunque ad una bramosia sostenibile) dovrebbe attecchire più facilmente, ma così non è, anche perché la potenza di fuoco di quell’apparato ha raggiunto nel frattempo livelli inverosimili.
Come tutti i monoteismi anche il consumismo con le sue sovrastrutture copre di opacità ciò che gli è avverso ed illumina con un irresistibile riverbero i precetti e le chiavi di volta per diffondere la propria dottrina.
Crea il bisogno inutile, rende improrogabile il superfluo ed essenziale l’apparenza, inculca il mantra del tutto e subito, mantiene una crescente tensione per evitare di programmare e progettare il futuro con raziocinio, incita a vivere come se non ci fosse domani, un’ottima scusa per gonfiare (oggi) la tasca di dietro del sistema dominante.
L’apparire sempre fighini e vincenti sta facendo perdere il senso della vergogna, o magari l’ha celata fra tatuaggi e taccate tamarre alla moda.
Proprio un esegeta di quel sistema affermò che non esistono pasti gratuiti, noi più che seguire guru di successo (quindi alla mercè del potere) o teorie riformiste (alla mercé pure loro) che di pasti ce ne vogliono vendere 10 al giorno, dovremmo riprendere qualche insegnamento della civiltà contadina e scoprire come delle ricette in apparenza inattuali non siano necessariamente scadute e che gli antidoti non sempre debbano essere prescritti, a volte è ammesso un salvifico fai da te.
No, non si tratta di cadere nella trappola ordo-liberista e calvinista di far sentire in colpa la vittima facendole credere che l’unica redenzione per un popolo dipinto come corrotto e prodigo di una nazione indebitata sia la cessione di sovranità e la sottomissione agli integerrimi tedeschi di Germania.
O si fa la fine dello schiavo che invoca la frusta.
Ma in quest’epoca subdola – dove l’opulenza si mischia al pauperismo e discernere l’una dall’altro è già di per sè una sfida – c’è bisogno che ognuno si riappropri con vigore di se stesso cacciando i troppi invasori che ci occupano alleandosi l’uno con l’altro.
Visto che ad essere nella medesima situazione siamo la maggioranza.
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